Questa nuova silloge di Alessandra Palombo si presenta al lettore come un cerchio perfetto, che s’apre con una lirica autoritratto, tutta basata sulla metafora del gioco delle carte, buone e meno buone che la vita ci offre e in cui il bilancio è dolceamaro: mi sono toccati più bastoni che coppe/e cuori affannati, oltre a bouquet di fiori ma dove, per fortuna, chi scrive ha il privilegio vitale dell’alba e del tramonto e la letizia, che non è appassita.
Mentre la lirica finale, che chiude il movimento circolare della raccolta, è sì la descrizione d’un sospiro d’autunno al crepuscolo ma anche un consuntivo di vita: sono scomparsi dal cuore il cinguettìo/e dalla mia bicicletta il sentieroma quel sentore d’autunno smuove la brace tiepida e morbida/a svelare del fuoco i riverberi/meraviglie d’un ottobre clemente.
Come non pensare che l’autrice non parli di sé e degli insperati tesori della sua attuale stagione di vita?
La lirica iniziale dunque apre il dialogo con il lettore e l’ultima ne suggella i contenuti, a ribadire la natura intimistica e introspettiva della raccolta, la confessione che Sandra fa di sé e attraverso la quale impara a conoscersi meglio e a meglio entrare in comunione con il suo ambiente umano e naturalistico.
Tra tali poli poetici estremi, infatti, nel lento dipanarsi delle liriche divise nelle tre sezioni di ESTERNI STAGIONI e INTERNI, c’è tutta Sandra, con la sua sensibilità (A dicembre, fra il ruggire del mare/e i ghirigori schiumosi dell’onde/stava l’abete in un vaso di coccio/rivestito con la carta da pacchi/a disegnare arabeschi sui vetri/dischiusi sul bambino e i tre re magi./Era, il Natale, calore di casa/era colore in cammino di Luce), la sua infanzia (Non ricordo nuvole nere/sopra il cappello con il nastro/lungo il porto odoroso di nafta/non ricordo nuvole nere/quando all’edicola/Tira e Molla costava venti lire) i suoi dolori (Odio la morte che ruppe l’alleanza […]l’urlo di dolore sgorgò senza pudore) i suoi affetti di figlia (Oh, lei sì che visse!/Ogni giorno/di mare si vestiva/si ornava la pelle con il sale/e nei capelli infilzava orchidee e scandiva i suoi ritmi con il sole:/la fatica di un’alba/la via crucis delle ore/e più tardi le lacrime indurite), di sposa (Nella mia valle/al calar delle ombre/non avrei altro riparo/se tu sparissi/e non stupirti/di queste parole/perché sei pietra/viva della mia vita) di madre (Anche la tartaruga quel giorno si svegliò/perché il sole scordò d’essere a gennaio/anche il giallo gelsomino era raggiante/perché canto d’Osanna intonarono le ore/anche le lunghe tende presero a danzare/ perché era ritornata a casa la maternità/a deporre delicatamente un cucciolo/di uomo nella vecchia culla in vimini), i suoi turbamenti d’adolescente (Il seno e il sangue/il trucco lieve/le calze a velo/le occhiate/mascoline/il rimirarsi/nello smarrimento/attorno casa/all’ora esatta/vennero), la sua condizione di studentessa universitaria (Tra un’andata e un ritorno a Pisa/ per ultimare gli esami dei miei studi/uscivo raramente/leggevo Bukowski sul parquet); con la sua attenzione al piccolo/grande mondo che la circonda e l’ha circondata: le case e i loro arredi e i luoghi testimoni dei suoi giorni –Portoferraio Porto Giglio Rio Elba Livorno- (In quella(mia) stanza terra/tetto/-nel tempo delle pareti verdi-/l’aria era dolce cibo per i sensi/l’altalena un legno tra due pali/in un campo a San Giovanni/dove esisteva solo l’istante (mio)/ oppure Io so d’alte scale semioscure/d’un corrimano in legno chiaro/di bossoli in ottone con i fiori./Io so dell’oltre dell’ingresso/di lenzuola calde di trabiccolo/di nonna che chiamava cocca./Io so d’esser stata/a Livorno in via Ugo Conti 12/uno scricciolo al sicurofino al trionfo della casa sospesa sul mare: Oh, i libri, i tuffi, i fruttie i fluttigiovanili/nella casa che svettava alta sulle mura/sotto al forte del Falcone!; l’insularità con i tesori, i limiti, i colori, il silenzio e il chiasso, la solitudine –isolitutine, la chiama Sandra, che ama giocare con le parole e coniare, se necessario, neologismi-; il trascolorare delle stagioni (a fine maggio/sul molo sole e lenze/-odor di sale;… borse di paglia/sui banchi del mercato/solo d’estate;…pare una trina/l’impalpabile nebbia/nata dal mare…sui tetti neri/un lampione s’accende/prima di sera) delle quali sa sapientemente cogliere gli scrigni cromatici e sensoriali, il freddo, il caldo, il tepore; e gli oggetti, tanti, che si caricano di valori simbolici e diventano emblemi di uno stato d’animo, di una pagina della vita, di un interrogativo oppure di un credito di fiducia nei giorni futuri: I lutti sono stati seppelliti/il bastone abbandonato […] sul tavolo all’ingresso/un cappello per la pioggia/da riporre in cantina e anche: Alla pinzetta sfugge/la domanda spuntata tra le sopracciglia/ed un sospiro e ancora: Una penna d’argento/un orologio rotto/una pipa e poco più/è quel che rimane/dell’era paterna/prima che il suono/dei suoi passi sparisse/nell’appartamento/in affitto -come la vita-/ al Ponticello.
Ne scaturisce il ritratto di una vita interiore ricca, multiforme dove i sentimenti sbocciano e si vivificano nel rapporto con il prossimo , ma dove, anche, tutto è, per così dire, armonizzato dalla regia della ragione, della lucidità, della misura razionale, che deve governare, come il timone la barca, le burrasche dell’esistenza, tenendo la barra dritta e lo sguardo all’approdo, al porto sicuro.
E quel seppellire i lutti per dare spazio alla vita, per ricominciare, ne è il suggello.
Le tappe dell’esistenza, la gamma dei sentimenti, le descrizioni dei luoghi, dei tempi e delle stagioni sono dipinti con pennellate sicure: Domestica è la dimensione del mio paese/suonano sulla pietra i passi frettolosi/tagliano l’acqua gelida le eliche/la sbarra del posteggio sale e scende/sotto a uccelli in volo a riscaldarsi
Sandra non ama i ghirigori, l’eccesso, il barocco.
Direi che la sua cifra, non solo stilistica, è mirabilmente classica, tutta incentrata sull’essenzialità: Il quotidiano vivere/in una terra avvolta dall’azzurro/corrode gli eccessi a svelare l’essenza, spesso offuscata/a chi abita luoghi ricchi di volte e di volti/da tangenziali uniti. A questa misura contenuta si contrappone qualche rara eccezione, come in Parità! Si urlò per noi…che è un bilancio agrodolce delle lotte femministe e del loro esito deludente in una poesia insolitamente lunga e non personale, come del resto la bellissima e dolente Liquido si sparge il dolore.
Nelle altre, bastano pochi tratti e il quadro è lì, pronto, vivido di colori, di odori, di suoni e di plasticità, filtrato soltanto dalla memoria o dallo sguardo acuto di chi sa cogliere bene anche i particolari: E’ sempre lì/nello stesso punto/il distributore di benzina/. E’ sempre lì lo stesso benzinaio/che osservavo da bambina/E’ sempre lì/l’odore dell’infanzia/che riaffiora appena passo.
Se passiamo dal piano della pittura -anche soltanto visiva- e dei contenuti, a quello della scrittura e delle sue modalità, insomma alla forma, possiamo dire che Sandra predilige il sostantivo, che per definizione è appunto SOSTANZA del discorso, mentre dell’aggettivo fa un uso parco, ben dosato perché il rischio è che diventi orpello. E poi si diverte a giocare con le consonanze (…i tuffi, i frutti, i flutti…; trabiccolo, cocca…) le anafore (Io so d’alte scale semioscure…Io so dell’oltre dell’ingresso…Io so d’essere stata) con le congiunzioni che non congiungono ma “chiudono” attenuando il già detto come in Liquido si sparge il dolore/tra i meridiani e i paralleli/roventi o gelidi del globo/e lì e qui/all’intorno per nefasti fati/pianto e stridore di denti/s’incrociano nel cielo/con stormi di rondini/aruspici di primavera/nonostante dove la consapevolezza del dolore cosmico si sfuma in quel volo di rondini e nella parola finale. E non mancano neppure le citazioni dantesche, come nel verso Fu là che tornammo a riveder le stelle che ci ricorda il primo canto del Purgatorio.
Nella sua generosità e umiltà, Sandra chiede perfino perdono alla parola, per averla usata per scavarsi dentro, costruire una concavità, un incàvo in cui stare e salvarsi.
Questi sono infatti i versi che seguono la poesia-autoritratto e la bella prefazione di Manrico Murzi e precedono tutte le altre poesie, organizzate in sezioni:
Possa perdonarmi la parola se la uso per parlarmi/mentre picchio e ripicchio contro il tronco/a scavarmi un incavo, dove raccogliermi
E sempre in questa lirica è presente l’essenza del pensiero filosofico-esistenziale dell’autrice, espressa in forma sapienziale, come in certi versetti biblici:
Odiarsi e amarsi è un limarsi mosso/un’asse traversa in un tugurio/del tempo/sommerso dai marosi/in eterno movimento.
Il titolo della raccolta Un giardino privo di mura è accoglienza, abbraccio, inclusione. E’ il locus amoenus della sua anima, ma non esclusivo come unhortus conclusus, il giardino medievale circondato da un alto muro, giardino dello spirito, metafora dell’esistenza umana, dove il muro rappresentava il limite tra il dentro e il fuori, separando e allo stesso tempo proteggendo dal caos esterno, dai dubbi e dalle incertezze. Nell’immaginario medievale era nello spazio chiuso e inaccessibile che la natura ritrovava la condizione di originaria purezza della creazione. E infatti il tipico giardino del Medioevo era un chiostro cinto da un muro dove i monaci si dedicavano al ritiro e alla meditazione, coltivando piante ed erbe per scopi medicinali e alimentari. Ma, senza andare così lontano nel tempo, molti altri muri troviamo nella letteratura; uno su tutti quello di Montale in Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto lirica che si chiude con questi versi …e andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. I paurosi cocci di bottiglia che ancora resistono in certi muri di orti e di giardini del nostro centro storico.
Ebbene, il giardino di Sandra, quello in cui coltiva i germogli del suo spirito e addolcisce i dispiaceri, non ha recinti né tanto meno cocci di bottiglia: si offre invece agli altri, in una comunione di sentimenti, progetti e desideri senza i quali rimarrebbe sterile e artificioso. Anche perché, come recita una delle prime poesie della raccolta A Porto Giglio la nostra casa/aveva un giardino privo di mura/ fatto di mare di vento e di vele/di sabbia finissima e scogliere/dove pranzare tra ricci e patelle/e un faro a illuminare l’entrata/così nemmeno la notte s’aveva paura. Ancora il mare, dunque, dal quale non può prescindere una poetessa isolana, ma un mare aperto, conviviale, che fuga col suo faro anche le paure.
Ecco, questa raccolta allora è tutta da leggere e da meditare, come è necessario per la poesia, per distillarne l’essenza ma anche le sfumature, una raccolta che resta nell’interiorità di ciascun lettore attento per i contenuti profondi che propone ma anche per la musicalità dei versi, la loro armonia, il loro suonare e risuonare, come echi profondi che finiscono per diventare parte di noi.
Maria Gisella Catuogno Marzo 2013