Abbiamo ricevuto da una socia questo commento a una sua gita a Pianosa di qualche anno fa, che ha la forza di una segnalazione e parla anche di Forte Teglia.

SOS per Pianosa
Ho visitato per la prima volta Pianosa soltanto un mese fa fa ed è stata una forte emozione: mi è parsa bellissima e tragica nel suo abbandono, nella sua quasi totale solitudine, nella memoria nostalgica di un passato che era invece molto vivo, come mostrano le immagini della ricca mostra fotografica organizzata dall’ Associazione per la difesa dell’isola di Pianosa.
Già all’avvicinarsi del barcone al porto stupisce la scenografia: il Molone, il Moletto, la Specola e l’imponente struttura che colpisce subito lo sguardo del visitatore, Forte Teglia, voluto da Napoleone, con la sua elegante merlatura. Ecco, proprio l’eleganza sobria ed accogliente è la cifra del porto, il fine che forse si prefiggeva la personalità di maggior spicco della tormentata storia isolana, quel Ponticelli, direttore dal 1871 della colonia penale, che addirittura vi fece costruire una terrazza panoramica affacciata sull’Elba, anche se la sosta sulle sue panchine per i Pianosini durò poco: una violenta mareggiata distrusse completamente la terrazza il giorno dell’Epifania del 1919 ed oggi di essa rimangono soltanto frammenti dell’antica pavimentazione a mattoni rossi.
Messo piede sull’isola ed iniziato il tour guidato, dopo la prima impressione d’insieme, quel che colpisce è il colore e la trasparenza del mare, assoluto cristallo che svela ogni recesso del fondale.
Quel mare che a Cala Giovanna, l’unica spiaggia aperta alla balneazione, diventa davvero irresistibile in una calda giornata di mezza estate e mantiene quel che promette, ossia l’illusione di trovarsi altrove, magari in Polinesia, o alle Maldive, come giurano amici che le conoscono, e secondo i quali Pianosa è anche meglio, per i colori che regala: l’acquamarina del fondo sabbioso, vicino alla costa e il cobalto di quello roccioso, incupito dall’alga; la pallida ocra del borgo deserto; il verde sfumato dell’ orizzonte elbano.
Gli altri tesori, non naturalistici ma storici, si dipanano generosi allo sguardo del visitatore: i resti della Villa marittima di Agrippa Postumo, nipote di Augusto, giovane e sfortunato esule che qui morì per intrighi di corte, la quale comprendeva anche un teatro per duecento spettatori, con le gradinate ricoperte di marmo; quel che resta dell’interrato Porto Romano, in un’incantevole insenatura; le bellissime, vaste, insospettate catacombe, del IV secolo.
Per non parlare degli edifici moderni, tra i quali la Casa dell’Agronomo, sulla sommità di una scalinata, di sapore quasi cinquecentesco nella sua architettura: fu voluta dai primi direttori di Pianosa per sottolineare l’importanza di tale carica in una colonia a destinazione agricola.
La chiesa di Pianosa, dedicata a San Gaudenzio e alla Madonna Addolorata, come recita un’iscrizione all’interno, risale alla metà del XIX, quando fu fatta costruire dai Granduchi di Toscana. I due ingressi separati, l’uno sul fondo dell’unica navata e l’altro, più piccolo, laterale, erano destinati rispettivamente ai detenuti e ai civili, compresi gli Agenti di Custodia. Tutto insomma era rigorosamente diviso, anche la celebrazione della S. Messa.
E poi, percorrendo con un piccolo bus, in bici o in carrozza l’isola, oltre quel bar-ristorante che è, non solo occasione di ristoro ma anche luogo di raduno per i visitatori; lasciandosi dunque alle spalle il borgo, le abitazioni, i due alberghi affiancati, la posta, le scuole, i giardini, la casa del direttore; Pianosa svela, ai lati di una strada bianca e polverosa, tra una fuga di lepri e una corsa di pernici e fagiani, le sue varie “diramazioni”, cioè i luoghi di reclusione, tra i quali il Sembolello che ospitò durante il fascismo il detenuto politico Sandro Pertini o Agrippa, la diramazione più grande, il Supercarcere, poi 41bis, famoso per la presenza tra le sue mura, a partire dal 1977, dei massimi esponenti della criminalità organizzata italiana. Per ordine del generale Dalla Chiesa, vi fu eliminata intorno ogni traccia di alta vegetazione e abbattuta anche l’attigua bella pineta.
L’edificio detto Il Marchese appare alla vista del visitatore nella zona più lontana dall’abitato, alla conclusione della strada stessa e deve probabilmente il suo nome al ruolo di feudatario di un territorio di confine che il responsabile di una marca rivestiva nel Medioevo: anche questa costruzione, in fondo, è all’estremità settentrionale di un’isola! La grande struttura, completata agli inizi del Novecento, è stata, di volta in volta, caserma, laboratorio batteriologico per ricerche sul colera, convalescenziario per i malati di tubercolosi, infine podere.
Da poco lontano, inerpicandosi a piedi per un tratto di bassa macchia mediterranea, si giunge alla Punta del Marchese, da cui si gode lo spettacolo mozzafiato di un tratto di costa alta e selvaggia, in splendida solitudine.
Poi c’è il ritorno al bar, alla “comunità”, ed anche, di nuovo, alla visione, poco edificante, ma pur sempre testimonianza storica delle drammatiche vicissitudini isolane, di quel muro di oltre un chilometro innalzato al tempo del supercarcere, per dividere i rei dagli onesti, e che impressiona davvero per l’altezza, la lunghezza e il significato di deterrenza, forse più psicologica che fattiva, attribuitogli dai suoi ideatori.
Insomma, alla fine della visita, quel che resta nell’animo è stupore e sgomento, perché alla straordinaria bellezza del paesaggio e delle opere, che si sono accumulate nei lunghi secoli della sua storia travagliata, fa stridente, doloroso contrasto lo stato di incuria in cui tutte le costruzioni versano e che diventerà irrecuperabile se l’abbandono si protrarrà ancora. Sono passati tanti anni dalla chiusura del supercarcere e dall’inizio della forzata solitudine pianosina; oggi la presenza umana è ridotta a sole ventisette persone: venti detenuti, alla fine della loro pena, e sette agenti di custodia. Intorno silenzio e desolazione, i muri che lasciano cadere l’intonaco, gli infissi a pezzi, le erbacce sulle antiche rovine, ovunque decadenza e atmosfera da “villaggio fantasma”. L’essere, come è successo negli ultimi anni, oasi naturalistica apprezzata da tutti non basta più a quest’isola: occorre ridarle nuova vita, che inevitabilmente non sarà più quella, come ci raccontano le foto di Pianosa com’era, di una popolazione di duemilacinquecento persone, con le loro feste, processioni, matrimoni, attività lavorative e ricreative di ogni tipo; ma potrà trasformare questo piccolo gioiello del Tirreno in una terra privilegiata di attività scientifiche, di colture biologiche, di iniziative didattiche, di turismo eco-sostenibile, di recupero “avanzato”, anche, di chi ha sbagliato, sottraendo alla distruzione del tempo il borgo, i palazzi, i resti romani, il porto e, questo è assolutamente prioritario, mantenendo incontaminate, come lo sono ora, le sue straordinarie risorse naturali.
Leggo oggi, su un giornale locale, che ci sono progetti in questo spirito il futuro di Pianosa. Incrociamo le dita, perché tutto possa avvenire prestissimo, non c’è altro tempo da perdere per salvare Pianosa!

M.Gisella Catuogno

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