Effemeridi estive di giorni non comuni sulla spiaggia delle Ghiaie
di Gianfranco Vanagolli
Giorgio appariva dal parterre, attraversava il lungomare e solcava la spiaggia, lentamente, con un fare un po’ teatrale. Probabilmente c’era chi, per questo, lo guardava di traverso, non sospettando che si trattava di un siparietto a beneficio dei familiari e degli amici, simboleggiante la quotidiana riappropriazione di uno spazio già quasi esclusivo e conquistato, col tempo, da vacanzieri d’ogni provenienza: “straniere genti”, li chiamava, foscolianamente; oppure, con l’amato Manzoni: -“L’arabo, il parto e il siro”. E ci rideva su, dando a divedere inequivocabilmente di che pasta fosse il suo concetto di apartheid.
Raggiungeva gli ombrelloni dove lo aspettava da ore la sua numerosa tribù, e disseminava in quell’accogliente rifugio l’armamentario che si portava sempre appresso costituito da una poltrona a sdraio, un ampio asciugamano a tinte vivaci, una specie di lenzuolo di carta stagnola e un paniere da cui spuntavano creme solari e libri. Si sistemava nei paraggi della moglie, la dolce signora Cia, che in breve gli riassumeva i fasti e i nefasti di comune interesse verificatisi fin lì, per tornare, poi, di norma, ad un pacato conversare con quanti le stavano accanto. Dopodiché le cose potevano prendere una pluralità di versi, anche i più differenti tra loro.
Dal mio punto di vista, che era quello di una proba nullità, per giunta giovane, di fronte ad un cattedratico di chiara fama, esse si sviluppavano favorevolmente se potevano chiamarsi lezione. Io rimpiangevo Pisa e il suo Studio e poterci tornare sul commento a un canto dantesco firmato Varanini mi gratificava tanto quanto non saprei dire. Peraltro il tono della lectura restava, per la sensibilità del docente, entro i confini di una levità stagionale, cui apparteneva l’aneddoto, il calembour, l’aforisma wildianamente vivido, qualche pennellata dissacrante a danno di personaggi famosi. Talora accadeva che fossi messo a parte della costruzione di un saggio destinato a “Italianistica” o a “Lingua nostra” o a “Studi e problemi di critica testuale”. A due di essi – Dante e la Fonte Branda di Romena e Cantari e novelle, apparsi rispettivamente in Letteratura e filologia e negli atti di un convegno sulla Novella italiana – detti un contributo che, a dispetto della sua assoluta marginalità, mi fruttò lodi e ringraziamenti tanto chiassosi da doverne arrossire di fronte all’intera spiaggia.
Ma l’ordine del giorno non correva in modo meno interessante e piacevole quando toccava la macchina del Premio Letterario Elba, della cui giuria Giorgio faceva parte, con Vettori, Luti, Pampaloni, Cattabiani, ed altri importanti letterati. Era questa l’occasione per un tuffo nella più recente produzione narrativa e poetica contemporanea, italiana e straniera, che diventava una nuotata indimenticabile, se era della partita Stelio Celebrini, antico normalista e docente di letterature comparate a Oxford e alla Sorbona, cui si poteva chiedere indifferentemente di Proust o di Mann o di Svevo, sicuri di una critica aggiornata e scevra da mortificazioni militanti. Al cenacolo si aggiungeva, talvolta, Carlo Laurenzi, più incline ad ascoltare che ad interloquire e tuttavia capace di segnare con una sola osservazione un intero confronto.
Amici d’infanzia, Giorgio, Carlo e Stelio sapevano riandare al passato con una nostalgia ora sommessa ora trepida, ma rifiutando decisamente, per pudore, di vestire i panni dei laudatores temporis acti. Anche questo me li rendeva cari. Stelio era amabile e aperto al dialogo; Carlo, introverso e ombroso. Giorgio, che aveva il genio dell’amicizia e lo spendeva da una posizione di domestico dominus riconosciuta volentieri da chiunque lo frequentasse, era capace di far concorrere le due personalità a rendere indimenticabili degli incontri altrimenti destinati a rimanere formali, senza storia. Lavoratore instancabile, egli si trovava costantemente al centro di una quantità di iniziative e di progetti. Ruotavano intorno a lui complesse indagini filologiche, talora fondamentali per il progresso degli studi di italianistica, come quella relativa al laudario di Cortona. L’Elba gli doveva non solo la buona salute del suo premio letterario, ma anche quella del Centro Nazionale di Studi Napoleonici. Il grande còrso imponeva mutamenti, sulla spiaggia. Nel suo nome si stringevano, ora, attorno al dominus Carlo Francovich e Alfonso Preziosi, l’uno presidente e l’altro vicepresidente del Centro in una stagione felice; talvolta anche Aulo Gasparri.
Nascevano lì i convegni del sodalizio, che richiamavano studiosi da tutta Europa. Ma sotto il solleone fioriva un’altra accademia capace di riempire intere mattinate, forse le più gaie: essa consisteva in una ricognizione sempre uguale e sempre diversa nello specifico linguistico elbano. Giorgio era dell’opinione che i nostri scrittori, da Villani a Laurenzi a Brignetti a Del Buono, dovessero sforzarsi di aprire le loro pagine alla koinè nella quale erano nati. Così cercava vocaboli e forme sintattiche e morfologiche sulle quali appiccicare un francobollo per rimetterle a chi doveva essere indotto in tentazione, esprimendo una gioia quasi fanciullesca di fronte ad ogni nuovo incontro. Per me, riese, era un’occasione per tornare a navigare in un mare familiare di arcaismi, contaminazioni, esiti imprevisti, mentre, più in generale, rinfrescavo non banalmente i miei studi di grammatica storica e di toponomastica. Il più tampinato tra i referenti era Brignetti, che cedette, infine, con La spiaggia d’oro, salvo, poi, doversene pentire davanti all’incomprensione dei critici, convinti di trovarsi di fronte a un lessico troppo smaltato per non essere d’invenzione. Correvano, in questo modo, giorni non comuni, tali in tutta l’ampiezza del loro registro, di cui ci si impadroniva nel corso di una specie di cammino iniziatico, costellato, come di norma, anche di fustigazioni più o meno rituali. Giorgio escludeva categoricamente che il suo prossimo più prossimo potesse essere in disarmonia con lui e la constatazione del contrario gli metteva in mano il flagello. Dirò di me, per non chiamare in causa altri flagellati. Una mattina mi colpì da diritto e da rovescio, dalla rocca della sua confessione pacelliana, avendomi sorpreso a leggere I nuovi preti, un libro che, all’inizio degli anni Ottanta, sosteneva il clero votato a praticare una pastorale degli ultimi sull’onda lunga del pontificato giovanneo. E reiterò la punizione, dandomi a molti decibel del milanese, presente Laurenzi, che ritenne di non doversi sbilanciare, allorché chiamai libeccio quello che per lui era un esemplare ponente. Così giunsi alla perfezione. In ottima e numerosa compagnia.
Era una prerogativa di Giorgio quella di raggiungere gli amici, una volta lasciata l’Elba a estate conclusa, con un flusso serrato di lettere e cartoline (personalmente ne conservo una settantina). Esso veicolava giudizi stimolanti su nuove pubblicazioni, riflessioni su un autore, osservazioni di varia umanità, che tutti aspettavamo, certi di un privilegio. Un giorno di giugno del 1991 mi rinnovò l’appuntamento sulla spiaggia con una cartolina da un paese scandinavo, dov’era andato per una serie di conferenze. Pochi giorni più tardi fui chiamato al telefono da un giornalista del “Tirreno” che mi chiedeva della sua vita, della sua carriera. Ne appresi così, in un modo che non finisce di turbarmi, la scomparsa. Da allora sono trascorsi vent’anni e anche la memoria è un dono che si sconta.