All’Isola d’Elba le miniere sono chiuse da trent’anni ma quei luoghi, occasionalmente calpestati oggi da turisti curiosi e da studiosi pensosi, riecheggiano ancora la tumultuosa vita d’un tempo: il fischio della sirena che scandiva le ore dei minatori e quelle degli abitanti dei paesi ferrigni; il boato della carica esplosiva; il rumore della tramoggia, del pattugliè e del lavaggino che ripulivano tutto con acqua di mare, separavano la terra dal ferro e i pezzi più grossi dal fine; le imprecazioni, le bestemmie, i sospiri, le preghiere, le grida dei cottimisti, addetti ai cumuli, che caricavano il minerale sui vagoni e ne seguivano il trasporto fino alla discarica; il fruscio del vento sulle vele dei lacconi, le imbarcazioni che facevano la spola tra la terraferma e le navi in rada, prima della costruzione dei pontili che si sarebbero allungati verso le chiatte; il ronzio del piano inclinato, con il doppio binario di vagoni in discesa e in salita; ma anche le chiacchiere, le confidenze, le risate, le prese in giro, le zuffe bonarie o più accese dei momenti del riposo, della pausa del pasto o della fine della giornata lavorativa, quando ci si rimetteva in cammino per raggiungere le case, le mogli, i figli, le madri, le fidanzate in attesa, per trascorrere qualche ora di serenità e dormire il sonno dei giusti. Fino ai primi sbadigli di luce del mattino successivo…
I minatori si partivano da Cavo, da Rio Marina, da Rio Alto, da Capoliveri per raggiungere a piedi le miniere: c’era chi arrivava presto, perché un paese come Rio Marina il minerale ce l’aveva in casa e i lacconi erano a poca distanza dalla spiaggetta della Torre, dove i bàmboli, d’estate, facevano il bagno, le rincorse e le sassaiole, sottraendosi per qualche ora alla sorveglianza delle mamme; ma c’era chi si faceva anche otto o dieci chilometri a piedi per raggiungere Rio Albano, Capo Pero, il Calendozio, il Ginevro, Calamita; tra essi non mancavano gli adolescenti e nemmeno i bambini di otto anni, in caso di famiglie particolarmente bisognose: a loro era di solito destinata la custodia degli asini.
Si alzavano prestissimo, dunque, i minatori che stavano lontano, a preparare il convìo, ossia il pasto della giornata, conservato in un pentolino cilindrico d’alluminio. Ricordo ancora quello di mio nonno Angiolino, che in miniera faceva il barrocciaio, ossia trasportava minerale col barroccio attaccato al suo cavallo. Mia nonna Giuseppina s’alzava con lui, riscaldava lo spezzatino con le verdure cucinato la sera prima o la zuppetta di fagioli cannellini o il pezzetto di baccalà lessato con l’aglio, l’olio e la nipitella; poi, nel paniere aggiungeva qualche fico secco, qualche noce e un quartino di vino. Nonno salutava, raccomandava alla moglie di ritornarsene a letto, saliva sul barroccio e s’avviava: faceva qualche tappa per offrire un passaggio, di volta in volta, ai più anziani, ai malandati o a qualche ragazzotto sonnacchioso che poteva dormicchiare, ciondolando il capo, quasi un’altra mezz’ora.
Attraverso i suoi racconti ho imparato a conoscere gli altri minatori, i loro visi cotti dal sole e ricamati da rughe precoci, le mani callose, i corpi muscolosi sformati da fatiche bestiali; le morti precoci per silicosi, la malattia che otturava i polmoni con la micidiale polvere di silicio impedendo la normale respirazione; il loro carattere fiero e aspro, come il ferro che lavoravano; la generosità, la solidarietà, l’altruismo mai ostentati e anzi quasi selvaticamente nascosti; l’immensa disponibilità al sacrificio personale per badare alla famiglia e alle sue necessità; l’orgoglio di essere squadra, di saper tener testa alla direzione, se oltrepassava il segno; la capacità organizzativa, la voglia di lottare per un sogno di giustizia e di riscatto; la resistenza al padronato, con scioperi memorabili e poi, con l’avvento del fascismo, l’umiliazione di dover chinare la testa, di non essere più “lega”, di vedersi imbavagliati e ridotti a servi. Negli anni della ventilata chiusura, ho assistito alla commossa difesa di quelle miniere da parte dei vecchi lavoratori, ormai in pensione; alla loro presenza nei cortei, accanto ai giovani, a rivendicare orgogliosamente, malgrado tutte le sofferenze patite, la loro storia, le loro lotte e a gridare l’irrinunciabile presenza mineraria sul territorio elbano.
Dalle parole di nonno Angiolino, grande affabulatore, da quello che raccontava al rientro, infaticabile, pronto a nuovi lavori – l’orto, le galline, i conigli, la capra, la vigna, il campetto di grano – ho imparato a immaginare quell’ambiente: la terra rossa, la polvere, il frastuono assordante; d’inverno, il freddo e l’umidità che entrano nelle ossa; d’estate, il sole che sembra piombo fuso quando tocca lo zenith e batte come un tamburo sulle tempie contratte; o, nelle giornate di pioggia novembrina, la delusione che provocava il “consolato”: la sirena suonava prima forte, poi più piano, poi ancora forte e a lungo; era il segnale che gli operai se ne dovevano tornare a casa e che per quel giorno non avrebbero guadagnato nemmeno una lira. Allora, fra quella gente, a seconda del temperamento, covava la rabbia, lo sconforto o la ribellione: dopo che si erano fatti magari otto chilometri a piedi, con i nuvoloni grigi sopra il capo, pregando che non piovesse, dovevano ripresentarsi anzitempo alle famiglie a mani vuote.
“Ma allora nonno, perché lo chiamavano consolato?!” insistevo io mentre lui si faceva la barba, seduto al tavolo di marmo di cucina – la cassettina di legno lavorato, con dentro il pennello, il sapone da barba, il rasoio e lo specchio, aperta davanti a sé, un regalo di suo cognato Tonietto:
“Perché prima ne veniva pagata una parte, una percentuale, delle ore di lavoro perse, e quella era la consolazione, il consolato, diciamo noi. Poi la direzione decise che non sarebbero state pagate per nulla. Però il nome è rimasto!”
“Parlami di Tonietto, nonno”
“Anche questa è una storia di miniera. Devi sapere che Tonietto era un bravissimo maestro artigiano di Rio Marina, un ebanista. Era stato a scuola a Genova per imparare bene il mestiere; fin da ragazzo non sopportava i torti, le ingiustizie. Avrebbe voluto studiare ma i soldi erano pochi. S’arrangiò da sé: leggeva sempre e di tutto. Diventò socialista, entrò nella sezione del partito che c’era in paese. Erano anni durissimi. Nel 1911, per esempio, lo sciopero alle miniere durò quattro mesi, la gente s’arrese per fame. Il clima era tesissimo: poteva succedere, durante i cortei di protesta, con le forze dell’ordine sempre pronte a reprimere i manifestanti, che si arrivasse al peggio, come quando ci rimise la vita una bambina innocente di pochi anni che si beccò una pallottola partita chissà come. Tonietto era sempre il primo in tutte le proteste. Intanto lavorava nella sua falegnameria, fece le porte delle chiese di Santa Barbara e di San Giuseppe, al Cavo, che erano una meraviglia, con tutte le figure di santi in bassorilievo. Poi faceva i mobili, tutti lavorati, quelli che abbiamo in casa li ha fatti lui. E poi faceva anche le casse da morto e le provava…”
“Come, le provava?!”
“Ci si metteva dentro, per accertarsi che le misure fossero giuste, per vedere se un corpo ci sarebbe stato. Le sue sorelle, tua nonna Giuseppina, e poi Amelia e Elisabetta, ma anche la loro madre, che si chiamava Angela, quando capitavano in bottega e lo vedevano steso lì proprio come un morto, strillavano e lo maltrattavano, ordinandogli di uscire subito, ché portava male. Lui rideva e si divertiva un sacco. Era un ribelle, ma generoso, unico. Nel ’19 lo fecero sindaco e fu il primo sindaco socialista del paese. Ma quando arrivò il fascismo, gliele fecero pagare tutte”.
“Che successe?!” incalzavo io
“Anzitutto per umiliarlo gli fecero bere l’olio di ricino, poi non lo fecero più lavorare del suo mestiere, lo boicottarono, la gente aveva paura e non gli ordinava più nulla. Ma lui era sposato, aveva cinque figli. Riuscì a entrare in miniera, ma gli affidarono i lavori più pesanti, quelli che tutti scartavano, per esempio al lavaggino, sempre con le mani nell’acqua di mare a ripulire il minerale, estate e inverno”.
“Povero zio Tonietto!”
“ Sì, ma si prese una bella rivincita quando cadde Mussolini e finì la guerra, perché le truppe francesi che entrarono a Rio Marina nel giugno del ’44, dopo quasi una settimana di lotta contro i tedeschi che avevano occupato l’isola nove mesi prima, indovina chi chiamarono a dirigere il paese!?…Proprio lui, zio Tonietto!”
”Meno male! Sono proprio contenta…” esclamavo alla fine, sollevata e fiera d’avere un eroe in famiglia!
Per i minatori, Santa Barbara, il 4 dicembre, era festa: niente lavoro e partecipazione invece alla messa dedicata alla loro protettrice, poi pranzo in famiglia e momenti di serena vita in comune. Di questa santa che mi incuriosiva, mio nonno non sapeva nulla.
Me ne parlò invece nonna Giuseppina, che aveva un debole per lei e se n’era imparata la vita a memoria:
“Barbara era nata in Turchia, un posto lontano lontano, ma chissà come era capitata in Italia, vicino a Rieti, sì, verso Roma. La leggenda sulla sua vita dice che il padre Dioscuro era un pagano cattivo che l’aveva segregata in una torre per proteggerla dai suoi pretendenti; quando scoprì che non da loro doveva proteggerla ma dalla nuova religione che si stava spargendo nell’impero, era troppo tardi. Sua moglie, già cristiana, aveva rivelato il suo segreto alla figlia che volle convertirsi anche lei. Il padre furibondo la denunciò al magistrato romano che ordinò la sua morte per decapitazione”.
“Povera Barbara!”- esclamavo io a quel punto, tappandomi la bocca per l’orrore
“Sembra che Dioscuro stesso abbia voluto fare il martirio! Pensa, suo padre in persona!” rincarava la dose la nonna, incurante del mio spavento.
Era il 4 dicembre dell’anno 306.
”Ma…”
“Ma?!”… sollecitavo io, che friggevo per l’impazienza
“Ma, appena compiuto il tremendo gesto, un fulmine incenerì il padre crudele”
Questo era il clou del racconto, il finale catartico della tremenda vicenda che mi dava più soddisfazione: la collera divina si manifestava finalmente in tutta la sua forza e giustizia!
“Per questo” aggiungeva Giuseppina “Barbara è diventata la santa che protegge vigili del fuoco, artiglieri, minatori. Per questo si prega anche contro i fulmini, in questo modo: Santa Barbara nel campo, che guardavi lo Spirito Santo, Santa Barbara benedetta, liberaci dal tuono, dal lampo e dalla saetta!”
Da allora, nessun temporale mi ha fatto più paura: mentre fuori pioveva, tirava vento e i lampi illuminavano la notte, invocavo Santa Barbara e nel dormiveglia sognavo torri, fanciulle prigioniere, preghiere appena sussurrate, scoppi di mine, terra rossa, brillìo di ferro e mio nonno col suo cavallo su e giù per la miniera.