Il dipinto asportato dalla sua sede nel 1985, ci è noto solo attraverso una pessima riproduzione fotografica in bianco e nero. La sua lettura, pertanto, non può essere che approssimativa, sebbene si possa ragionevolmente parlare di un’opera sei-settecentesca, non priva di pregio, uscita con ogni probabilità da un atélier toscano.
Vi si nota la ripetizione di un modello assai diffuso, nel quale compaiono in struttura rigorosamente verticale la Vergine con il Bambino e varie figure ascrivibili sia alla sfera sacra che a quella profana. Qui la Madonna, la testa leggermente reclinata sulla spalla destra ad accompagnare il movimento del braccio e della mano, sorregge il Bambino che si volge, invece, nella direzione opposta: a questa croce è sottomesso parattaticamente un manipolo di quattro figure, nelle quali riconosciamo con sufficiente sicurezza, in alto a sinistra, Giovanni Battista e in basso a destra, Santa Chiara d’Assisi, contraddistinta dal giglio della verginità e dal tabernacolo che protende, insieme al crocifisso. Il santo vescovo non sembra mostrare motivi iconografici utili alla sua individuazione, cosicché restiamo indecisi, restringendo al massimo il campo d’indagine, tra Mamiliano e Cerbone, l’uno e l’altro intrinseci alla tradizione monastica nel nostro arcipelago, ritratti, di norma, il primo nell’atto di trafiggere il drago del paganesimo con il pastorale e il secondo insieme a una o più oche. Della quarta figura ci sfuggono quasi del tutto i lineamenti. Né riusciamo a distinguere meglio alcuni dettagli presenti al centro e al piede dell’opera, la cui verticalità è più volte sottolineata (ad esempio, dal braccio levato del vescovo, dal pastorale e dal tabernacolo). In essa, del resto, l’intera materia rappresentata trova il suo senso: la preghiera sale dall’innocente che la pronuncia ai santi intercessori cui la committenza è devota alla manifesta pietà della Vergine nella gloria della luce e degli angeli.
Gianfranco Vanagolli