Un racconto inedito della professoressa Gisella Catuogno, nostra socia, ispirato ai tragici avvenimenti successivi allo sbarco delle potenze alleate per la liberazione dell’Elba, di cui ricorre oggi e domani, 17 e 18 giugno, l’anniversario.
“…la drammatica liberazione dell’Isola col suo corollario di morte e di violenza mi ha sempre colpito. A suo tempo ne scrissi un racconto che è rimasto inedito. E’ un modo per ricordare le sofferenze di quelle donne e la tragedia della guerra di cui tutti sono, alla fine, vittime.”
Gisella Catuogno
Una lama di luce riflessa nel mare, un ramo di mimosa che appariva e spariva secondo il respiro del vento, un cielo di febbraio insolitamente clemente, dove le nuvole non riuscivano a vincere il sole.
Questo incorniciava il telaio della finestra di Maria, mentre lei, china sul cucito, ogni tanto alzava lo sguardo per saziarsene e riposarsi dalla monotonia dei gesti. Non le mancava certo il lavoro in quei mesi, con la miseria che c’era. La gente non aveva abbastanza soldi per comprarsi vestiti nuovi e, anche se li avesse avuti, non avrebbe trovato la stoffa. Mancava tutto o quasi. Si pativa la fame e il freddo, ma bisognava pur coprirsi in qualche modo. E allora si ricorreva a lei, a Maria la vedova, sia per pietà dei suoi due bambini rimasti orfani, ma soprattutto perché era brava come nessuna a smontare vecchi cappotti e giacche consumate, girarne il tessuto e ricucirli secondo un modello nuovo, che li faceva rinascere a nuova vita. Aghi, filo, forbici, gessetti, spille, il tavolo di cucina come base e qualche rivista a cui ispirarsi: tale era il suo atelier.
La manualità, la creatività, l’intelligenza facevano il resto. Del resto non era sempre stato nei suoi sogni di ragazza diventare sarta? Ma poi c’erano stati altri impegni: il fidanzamento con Franco, il suo amore di sempre, il matrimonio, i figli, e quell’antico sogno era stato messo nel cassetto. Suo marito non voleva gente per casa, era geloso di lei: della sua bocca piccola e carnosa, del suo ovale da madonna fiorentina, dei suoi occhi verdi, della sua cascata di riccioli bruni e soprattutto del suo irresistibile sorriso.
Maria a volte si sentiva soffocare dalle sue attenzioni ma lo amava perché era serio, lavoratore e maledettamente attraente. L’intesa fisica era perfetta e questo la ripagava del resto. Poi un giorno di settembre di cinque mesi prima tutto era tragicamente cambiato: Franco era morto nel bombardamento tedesco di Portoferraio, mentre vendeva il pesce al mercato. L’aveva cercato anche lei per un giorno e una notte, scavando a mani nude sotto le macerie e finalmente era apparsa l’asta della bilancia e, accanto, ripiegato su se stesso, il corpo tanto amato.
L’aveva pianto per una settimana, folle di dolore, accettando soltanto di bere un po’ d’acqua e un po’ di latte, senza cibo, senza più voce per consolare i suoi bambini. Poi aveva capito: doveva rialzare la testa, doveva salvare almeno loro e opporsi con fierezza a quel destino infame. Basta piangersi addosso, farò da padre e da madre a Giovanni e Lia. Sono forte, non ho paura di lavorare, Franco vorrebbe così. Devo dare l’esempio, devo mangiare, devo vivere e far vivere loro. Ce la farò. lo giuro.
E ora si trovava nella sua cucina a dare gli ultimi punti a una giacca ricavata da una coperta militare, contenta di se stessa, pur nella mestizia che le velava lo sguardo, di quello che in quei mesi era riuscita a fare: vendere la barca da pesca del marito a un prezzo accettabile, pagare regolarmente l’affitto, procurare il necessario ai bambini, accudirli, coccolarli. A volte s’inventava le storie più strane e divertenti per farli sorridere, per riempire, con la sua forza e la sua gioventù il tremendo vuoto lasciato dalla scomparsa improvvisa del padre. Si sentiva quasi un’eroina di quel periodo tragico.
Gli altri drammatici avvenimenti dell’infausto settembre, l’occupazione tedesca dell’Elba e, qualche giorno più tardi, l’affondamento del piroscafo Andrea Sgarallino, silurato dagli inglesi con trecento passeggeri a bordo, erano stati un nuovo distillato di dolore, ma le pareva quasi d’esserne assuefatta, come a una droga.
E quasi si meravigliava e si vergognava di non soffrire di più.
S’alzò dalla sedia per preparare qualcosa ai suoi figli che stavano per rincasare dalla scuola: un po’ di minestra, un po’ di pecorino comprato dal pastore sardo che conosceva.
Tornavano insieme, Giovanni e Lia, lui di un passo più avanti, come a protezione della sorellina e a rimarcare la sua superiorità su di lei, per età e per sesso.
Maria li guardava senza farsi vedere, orgogliosa di loro.
I momenti migliori per riflettere e prendere decisioni erano mentre cuciva: la mano che, rapida ed esperta, faceva entrare e uscire l’ago dalla stoffa, agiva autonomamente dai suoi pensieri, che erano allora liberi di presentarsi lucidamente, come tanti soldatini schierati in fila per la parata d’onore. Forse era l’immobilità fisica ad accelerare per compensazione quella mentale.
Così, era stato proprio durante il suo lavoro di sarta, seduta alla finestra per catturare anche la minima goccia di luce possibile, che aveva deciso di restare, di restare malgrado i ripetuti inviti dei suoi a raggiungerla a Capri, nella loro terra d’origine, dove si erano ritirati da poco, sopraggiunta l’età del riposo. Quarant’anni prima, ancora freschi sposi, si erano trasferiti all’Isola d’Elba, come altri, per sfruttare quel mare pescoso, che i locali, dediti soprattutto alla miniera e alla campagna, tendevano a trascurare. Grazie a loro e a molti altri campani, su quella nuova isola era nata la pesca professionale che dava il necessario e qualcosa di più. Nella terra d’adozione era nata lei, che si considerava toscana, sebbene la bellezza di Capri, la prima volta che l’aveva vista, con quel mare incredibilmente azzurro, i faraglioni sorgenti come per miracolo dall’acqua, gli ibischi grandi come alberi, le avesse tolto il fiato. E ora i suoi la chiamavano, la volevano, da quando nel settembre era successa la disgrazia. Il sud era libero e lei si sarebbe potuta trasferire giù, accanto alla famiglia che l’avrebbe accolta a braccia aperte e coccolata insieme ai suoi bambini. Eppure non lo desiderava, anzi non lo voleva per nulla.
Una forza ostinata la spingeva a restare: qui era nata e si era innamorata, qui aveva concepito e dato alla luce i suoi figli, qui era la tomba di Franco su cui andava a posare quasi ogni giorno un fiore fresco del loro giardino. Non poteva andarsene, anche se non aveva nessun parente all’Elba. Avrebbe fatto da sola.
E così, la mattina presto, faceva suonare appena la sveglia e s’imponeva d’alzarsi per finire i lavori e consegnarli. Il risveglio senza il suo uomo accanto, per qualche minuto la ripiombava nei primi tempi del lutto, nella stessa voragine nera e senza fondo. Ma poi, appellandosi a tutte le sue forze, cercava di programmare mentalmente la giornata che stava per iniziare perché neanche un’ora andasse sprecata e la tristezza non la tiranneggiasse. Quindi allungava la mano e nel cuscino accanto accarezzava i capelli morbidi e ricci della sua bambina addormentata, attenta a non svegliarla nemmeno un minuto prima del necessario. E allora si riconciliava con la vita, nonostante tutto. Grazie, Franco, per i regali che mi hai lasciato…
Intanto, l’inverno, anche se agli sgoccioli, continuava a picchiare duro: ci si scaldava con legna raccattata ovunque, anche sulla spiaggia, ma il freddo e l’umidità mordevano le carni. Da mangiare si trovava pochissimo, anche il pesce era razionato e la gente faceva la fila per procurarsene un po’ dai pescivendoli autorizzati; le ceste che portavano al mercato erano insufficienti a smaltire la fila, che ricominciava il giorno dopo, dove si era interrotta. Ma gli amici di Franco si ricordavano di lei e dei suoi figli e non mancavano mai di portarle un nasellino, un pugnetto di zerri, un calamaro rimasto nella rete. E allora, lei faceva miracoli, profumando lo scarso cibo con qualche erba che trovava in giardino, moltiplicandolo con due o tre patate, sostituendo l’olio cronicamente mancante con un sorso di latte. Si levava il pane di bocca pur di non veder deperire i suoi figli. Lei invece dimagriva a vista d’occhio per il dolore della vedovanza, per il peso delle responsabilità ma anche perché mangiava pochissimo. Lo vedeva dai vestiti, in cui nuotava, dall’immagine che lo specchio le rimandava: Chissà se così gli sarei piaciuta, forse no, mi avrebbe preferito come prima, bella e formosa …e quasi arrossiva al pensiero dei loro amplessi. Le sembrava così lontano il tempo delle vendemmie d’amore: Franco era passionale ma accorto, attento anche al suo piacere. Quanto aveva goduto insieme a lui, quanto si era sentita donna appagata! Ora, al contrario, le pareva d’essere una spugna strizzata o una pietra pomice, grigia, arida e galleggiante nel nulla. Se non fosse stato per Giovanni e Lia, si sarebbe tappata in casa, a leccarsi le ferite e a cullare la solitudine. Ma non poteva.
La primavera s’avvicinava ormai, bussava alla sua porta. Il piccolo giardino era tutto in fermento, le pareva di sentirlo il rumore della linfa dentro il vecchio legno stanco del pesco e dell’albicocco, che premeva sui rami stecchiti e li vivificava e li riempiva di minuscole gemme, non più grandi dei bottoncini che usava lei per le camicette delle donne.
“ Mamma, ho visto le prime rondini!” le annunciò Lia una mattina. E in effetti, alzando lo sguardo, pur non vedendone affatto, trovò il cielo meno vuoto di presenze e di colori E qualche giorno dopo, Giovanni, tutto fiero della sua scoperta:
“Lo sapete che c’è un nido sotto il nostro tetto?”
Andarono tutti e tre e davvero notarono una rondinella che andava e veniva dal sottotetto, ogni volta con qualcosa nel becco, un filo di paglia, una piuma, un legnetto.
Il diciannove marzo, il giorno di San Giuseppe, quando, anche in quel tristissimo anno, gli elbani non vollero rinunciare alle tradizionali frittelle di riso e dunque per le vie del paese aleggiava il loro inconfondibile profumo, nella tarda mattinata arrivò a Marina di Campo la notizia del bombardamento alleato su Portoferraio. Altri morti, altre distruzioni, altro dolore nero e spesso come il piombo. Ma l’occupazione tedesca vacillava.
Passò finalmente marzo con i suoi bronci. Aprile e maggio riempirono i campi di ranuncoli, di papaveri e di viburni, gli alberi trionfavano di passeri, di fringuelli e di pettirossi. La natura non guarda in faccia a nessuno, nemmeno alla guerra si sorprese a pensare Maria.
La forza della vita trionfava sui lutti, sulla morte, sulla violenza. Così la giovane donna vedeva sbocciare, insieme ai fiori e ai nidi, i ventri delle spose, la cui gravidanza, nascosta fino a poco prima dei cappotti e dalle giacche, esplodeva ora nelle vesti più leggere e non riusciva a impedirsi di provare una dolorosa punta di invidia per loro, perché a lei non sarebbe mai più capitato.
Le notizie che captava dai discorsi della gente, dai notiziari radio, da qualche pagina di giornale in cui i suoi clienti avvolgevano le povere stoffe che le portavano, raccontavano una guerra sempre più cruenta e disperata per i nazisti. C’era nell’aria l’attesa di un grande sbarco che avrebbe messo in ginocchio il Terzo Reich e risolto di riflesso anche la situazione italiana, dove il fronte che divideva il Paese tra il sud liberato e il centro nord sotto il controllo nazifascista, procedeva lentissimo, con affanno, inghiottendo come un mostro famelico non solo partigiani e alleati, ma anche le disgraziate popolazioni incrociate nel suo cammino. Maria era sconvolta dalle notizie delle stragi, che si guardava bene dal raccontare, stringendosi al seno i suoi figli, in uno slancio di commovente quanto inutile protezione.
Era appena finita la scuola, quando in paese si cominciò a sussurrare la notizia che qualcosa di grosso si stava preparando sull’isola. Nessuno sapeva niente di preciso ma le voci si concentravano, ancora una volta, sul termine sbarco. Il sei giugno c’era stato quello grandioso in Normandia, che aveva vomitato sulle spiagge designate una quantità tale di uomini e mezzi che i tedeschi sbalorditi quasi non credevano ai loro binocoli, al vederli, pur reagendo con prontezza e rispondendo a dovere dalle loro postazioni.
La battaglia alleata per conquistare e tenere quel lembo di costa si era rivelata una carneficina: moltissimi di quei giovani erano stati falcidiati –Poveri ragazzi ma anche povere mamme povere mogli povere sorelle! aveva pensato Maria- ma non pochi erano riusciti a sfondare. Lo sbarco era riuscito.
Ora s’aspettava qualcosa di grosso anche nel Mediterraneo, ma non si sapeva dove, si bisbigliava l’Elba.
La mattina del diciassette Maria si era trattenuta a letto più del consueto. Verso le otto, sentì bussare alla porta, s’alzò sorpresa e inquieta:
“Sono sbarcati, sono sbarcati gli Alleati, vengono dalla Corsica, stanno già combattendo contro i tedeschi. State in casa, non uscite! Rimediate senza uscire?”
“Sì, sì, Francesco, non ti preoccupare” rispose la donna, che invece tremava come una foglia
“Mamma, che succede?” chiese sonnacchioso Giovanni, che si sentiva la responsabilità d’unico maschio di casa
“Sono arrivati i nemici dei tedeschi, sono nostri amici…stanno combattendo per liberare l’isola. E’ pericoloso muoversi. Oggi non si esce di casa!”
“Lia, Lia, svegliati!”
“Ma lasciala stare, povera piccola…”lo rimproverò la mamma facendogli gli occhiacci
Per tutto il giorno, Giovanni sbirciò dalla finestra, uscì nel giardinetto, prontamente richiamato dalla madre che strillava da dentro perché rientrasse, passò ore a guardare col binocolo del babbo nella rada e in effetti vide imbarcazioni strane al largo e udì colpi di fucile e colpi di cannonate dalla spiaggia. Era eccitato e impaurito nello stesso tempo. Attratto dal richiamo atavico della guerra, dello scontro fisico, ma terrorizzato al pensiero del pericolo che anche la gente normale, e quindi pure lui, sua madre e sua sorella, le uniche persone al mondo che gli fossero rimaste, correvano.
Passò così quasi tutto il pomeriggio. Verso sera, Luciana, la moglie di Francesco, passò per una visita. Non stavano lontano, appena un po’ più in alto, sulla collina; portava un po’ di zuppa, qualche sardina marinata. Si fece promettere che l’indomani mattina, Maria le avrebbe mandato i bambini per una piccola festicciola: era il compleanno dei suoi gemelli, Giuseppe e Vittorio, e pur nella ristrettezza dei tempi, voleva festeggiarli.
A Maria non sembrò vero: la giornata quasi trascorsa le era sembrata interminabile, era dovuta stare dietro ai figli e alla casa e l’idea del lavoro arretrato la faceva stare sulle spine. Le voci erano che gli alleati erano riusciti a far retrocedere i tedeschi a monte, ma che la situazione era ancora incerta. Sarebbero occorsi altri giorni di lotta per vincerli e per tutta la notte Maria, tesa come una corda di violino, stretta a entrambi i suoi figli che ospitava nel letto, sentì in lontananza i colpi secchi dei fucili e lo strepito delle mitragliatrici.
Si alzò all’alba, prima delle cinque: caduto lo scirocco del giorno prima, che aveva tenuto bassi i nuvolosi grigi e aumentata la sensazione d’oppressione, ora il cielo appariva più sgombro e alto e già cominciava a tingersi d’aurora. Fa’ che tutto sia passato, mio Dio, e anche tu, Franco, da lassù proteggici! Forte di quella preghiera cominciò a prepararsi una tazza d’orzo e a scaldare un po’ di pane secco per farne colazione. Lo stomaco, chiuso il giorno prima, reclamava ora un minimo di ristoro. Pure le armi tacevano, esauste anch’esse della lunga nottata.
Alle nove accompagnò da Luciana i bambini e si tappò in casa: l’aspettavano le ultime rifiniture di un vestito da sposa, povera sposa di guerra che non aveva voluto rinunciare al bianco: Così aveva portato a Maria un lenzuolo di lino del corredo e lei ne aveva fatto un abitino delizioso che doveva consegnare, secondo gli accordi, entro la giornata.
Verso mezzogiorno, dopo ore di lavoro ininterrotto con l’unica compagnia della sua radio accesa, si alzò per vedere cosa poteva mangiare, se in dispensa c’era rimasto qualcosa. Un rumore la sorprese, come di una presenza estranea e inattesa. Forse il cane di Francesco che la conosceva e dunque si prendeva queste confidenze…Alzò gli occhi e il cuore –ne fu sicura- per qualche istante almeno cessò di battere: un ragazzo nero, enorme, in divisa militare, occupava tutto il vano della porta. Non poté trattenere un grido.
“No, bella, no bella, tu non spaventare”
“Vai via, vai via…” urlò retrocedendo per istinto verso la finestra per chiedere aiuto.
Ma il giovane d’un balzo le fu accanto, le strinse il polso e le tappò la bocca
“Pas paura, pas paura”
“Vattene!” sibilò ancora, inutilmente divincolandosi dalla sua stretta “Lasciami!”
Allora lui le tolse la mano dalla bocca ma le palpò il seno stringendosela contro e cercandole la bocca.
Il braccio intorno alla vita era una morsa irresistibile.
“Io no uccidere…io no fare male…compris?…io fare amore…compris?”
E come costringendo alla ragione, con la forza, un bambino recalcitrante, lui la costringeva a terra, a sedersi e poi sdraiarsi sul pavimento, tenendola per i capelli, incurante della sua resistenza, che quasi approvava, come un surplus d’eccitazione, e continuava a ripetere, in un ritornello ossessivo Bella bella mettendosi a cavalcioni su di lei e slacciandosi la cintura dei pantaloni. Scostata la veste, gli fu facile arrivare al grembo di Maria, appena protetto, nel caldo già estivo, dal cotone della biancheria. E quella penetrazione violenta, pretesa, ottenuta, mentre lei sotto piangeva e scuoteva la testa, fu per lui, dopo il bagno di sangue e di morte dell’ultimo giorno, un ritorno, un approdo, la calda sicurezza d’un nido, il caldo ventre della sua Africa che riaccoglieva un povero contadino senegalese di vent’anni dopo che ne era stato strappato a forza per combattere e morire lontano, in una terra straniera.
Maria costretta all’immobilità e al silenzio dalle grandi mani di lui poteva solo esprimere con le lacrime il suo strazio e un dolore antico: quello dell’ultima vittima sacrificale di un rito ancestrale, antico quanto l’umanità e da sempre condimento d’ogni guerra, lo stupro delle donne. Il suggello, il grido del vincitore che marca il territorio, come un animale, e fa scempio delle femmine dei vinti. Ma ora, ora, non erano questi i liberatori, gli amici? I tedeschi non l’avevano fatto e lo facevano loro?! Cercava di scindere il pensiero dalle sensazioni, di tenere desto il primo e far tacere quelle, che urlavano ribrezzo e attrazione al contempo. Quell’odore che conosceva, l’odore del maschio eccitato, mescolato al tanfo di sudore che imperlava la fronte e bagnava la camicia del suo violentatore, la investiva e la nauseava mentre laggiù, laggiù avvertiva un dolore e una pienezza infinite, moltiplicate dalle spinte poderose che riceveva e che le facevano battere ritmicamente la testa contro l’impiantito. Morirò, morirò così, con lui addosso e i miei figli si vergogneranno di me. Si sentì persa, sull’orlo di un precipizio e quasi stava per cedere allo scempio, quando fu riscossa da un grido soffocato di lui e dalla tiepidezza bagnata che avvertì tra le cosce. Capì che aveva finito, che si sollevava da lei e la lasciava libera.
“Pardon pardon. Scusa, perdona” furono le ultime parole che gli sentì dire mentre la riempiva di piccoli baci sul viso e sul collo.
Lo vide alzarsi, guardarsi in giro, prendere dal vaso di gelsomini sul tavolo un minuscolo fiore e metterselo nel taschino. Poi sparì, come era comparso, lasciandola là per terra, discinta e disperata. Non seppe mai quanto rimase là, in preda a una vertigine e a un disgusto che le rendeva impossibile ogni movimento. Poi terrorizzata al pensiero che i figli tornassero e la vedessero in quello stato, s’alzò barcollando, raggiunse la sedia più vicina e si sedette. Allora il dolore bruciante che avvertiva al ventre le fece abbassare gli occhi e si scoprì sporca di sperma e di sangue. Si trascinò in bagno inebetita, si strappò gli indumenti di dosso e cominciò a lavarsi con furore: il contatto con l’acqua fredda la riportò del tutto alla realtà e alla sua crudezza. Franco, Franco, che mi hanno fatto? Era meglio la morte, era meglio la morte mormorava fra i singhiozzi, impaurita dalle sue stesse parole, che, pronunciate, suonavano alle sue orecchie come la conferma del tristissimo presente Ma si pentì subito di quanto detto pensando ai figli. Si aggrappò al lavandino senza osare di alzare gli occhi al piccolo specchio che lo sormontava, per non vedervi la sua faccia riflessa Meno male che i miei non ci sono, non lo devono sapere, morirebbero di dolore e si pettinò così, senza guardarsi. Si sentiva lo stomaco sconvolto dai conati ma era digiuna e riuscì a liberarsi soltanto di un po’ di saliva. Fra poco arrivano i bimbi, devono trovarmi normale. Passò di nuovo in cucina e vide il suo lavoro abbandonato sulla sedia, cercò di mettersi al lavoro ma il tremito delle mani impediva all’ago di compiere il suo dovere. Guardò fuori: il sole splendeva ancora alto, Saranno le quattro, fra poco tornano. Infatti poco dopo udì in giardino le voci allegre di Lia e di Giovanni, ma anche quella di Luciana, che glieli riportava, mescolata alle loro.
“Mamma mamma, siamo stati benissimo, il dolce era superbuono e mi sento una panciona…” gridò la bimba, correndo ad abbracciarla ma si fermò interdetta: “Mammina, che hai? Non ti senti bene?”
E Giovanni, di rimando: “Sei strana, mamma…che ti succede?”
“Nulla di nulla, bimbi belli, solo un po’ di tristezza…andate a giocare”
Ma Luciana non poté ingannarla e mentre i figli si trattenevano fuori, già consolati dal sole di giugno e dal ricordo della bella giornata trascorsa, soffocando il pianto nel fazzoletto e nel suo abbraccio per non farsi sentire, raccontò tutto all’amica. Dopo lo sfogo si sentì meglio e anzi dovette consolare lei Luciana, che appariva sconvolta e pronta alla vendetta.
“Dobbiamo denunciare tutto!” sentenziò la donna
“Non voglio, non voglio che si sappia, mi vergogno troppo!”
“Sei tu la vittima, è lui che deve vergognarsi!” sibilò incollerita Luciana
“Se lo fai ti tolgo il saluto, non sei più mia amica” la scrollò Maria, infuriata
“Lo capisce che può capitare a altre donne se non diciamo nulla?”
A quel punto un barlume di ragionevolezza si fece spazio nel buio della disperazione e Maria tacque, arresa. Capì che doveva farlo. Perché un’altra donna, una ragazzina, una bambina non patissero il suo strazio. Il giorno dopo lo stupro fu denunciato al Comando Alleato e non fu l’unica denuncia: anche in altri paesi, liberati dai tedeschi, era successo. La punizione fu esemplare: gli ufficiali stessi dopo le testimonianze delle vittime passarono per le armi i soldati violentatori. Quattro militari, due marocchini, un senegalese e un francese furono uccisi dopo un interrogatorio sommario. Quando Maria lo seppe non provò nessun sollievo, nessuna soddisfazione: solo un nuovo dolore, sordo, cupo e frammisto a sensi di colpa. Anche lei lo aveva giustiziato.
Dopo un mese e mezzo non poteva più nutrire nessuna speranza: era incinta, irrimediabilmente incinta.
“Devi abortire!” quasi le ordinò Luciana, quando glielo disse
“No, non voglio farlo”
“E’ stato uno stupro, so dove portarti, fallo”
Ma Maria si ricordò di una ragazza morta l’anno prima inspiegabilmente e in paese si mormorava che fosse successo per un aborto mal riuscito, che la ragazza aveva tentato perché incinta di un tedesco.
“ Ti porto all’ospedale, ti porto da un dottore, non da una mammana” insisteva l’amica
“No, non me la sento, non voglio correre questo rischio, non voglio che i miei figli restino orfani anche della loro madre!”
“ Sei vedova, lui era nero, ti nascerà un bastardo di colore, morirai di vergogna!”
Furono quelle, per Maria, le parole con le quali Luciana aveva gettato la maschera, rivelandosi brutale e piena di pregiudizi come tutti.
“ Mi è capitato, l’accetto, non abortisco, i miei figli capiranno, del paese non m’interessa e di te nemmeno” e la spinse verso la porta
“Te ne pentirai, Maria, ricordatelo”
“Addio, Luciana, ho perso anche te”
Le capitava di riflettere, nel tumulto dei sentimenti che l’agitava e che non la lasciava dormire la notte, quanto sia grande la capacità di resistenza di un essere umano e quanto possa essere profondo l’abisso della disperazione, specialmente quando è necessario mantenere la lucidità quotidiana e non trascinare nel vortice distruttivo due innocenti. Sapeva che la disgrazia che le era capitata non era unica e che a pochi chilometri di distanza altre due donne erano nelle sue condizioni, ma questo non la consolava né voleva incontrarle: le pareva che l’unica maniera possibile per limitare i danni fosse tracciare un cerchio intorno al proprio dolore, lasciarne fuori gli altri, specialmente i suoi figli, e gestirselo privatamente, come un fiore di tenebra. Non aveva raccontato nulla nemmeno a sua madre, non voleva che Capri e dintorni sapessero il suo scempio. Il tempo per rivelarlo purtroppo sarebbe giunto anche troppo presto.
Invece in paese la notizia si era diffusa quasi in tempo reale, perché Luciana, messa alla porta, in un impulso di rivalsa, di cui peraltro si era pentita subito, aveva parlato.
Il contraccolpo Maria l’avvertì immediatamente perché per qualche giorno nessuno l’aveva cercata per nuovi lavori, quasi che l’imbarazzo o il disappunto o la riprovazione impedissero ai suoi clienti di bussare a quella porta, di pronunciare una parola di solidarietà, condivisione, compassione o offerta d’aiuto. E quando finalmente tornarono, lentamente, ne sentì, palpabile, la distanza. Solo una signora, un’insegnante in pensione, appena la vide le andò incontro e l’abbracciò stretta consolando il suo pianto e offrendole un dolce fatto apposta per lei e i suoi figli.
Un giorno, al ritorno dal mare che era a due passi, e dove quindi spesso andavano da soli, Giovanni e Lia le si avvicinarono correndo, affannati, e con un’espressione strana, di rimprovero e di interrogazione nello sguardo.
“Mamma” cominciò il bambino, tutto agitato “al mare Giuseppe e Vittorio ci hanno detto una cosa strana, che ci nascerà un fratello o una sorella…e ridevano. Io gli ho risposto male, allora loro ti hanno offeso e io gli ho dato un pugno per uno ma erano in due e sono cascato per terra…allora Lia si è messa piangere e mi ha portato via e loro ci rincorrevano…mamma, perché dicevano così?”
“Eh, mammina, perché?” aggiunse Lia senza fiato.
Allora Maria li abbracciò, li portò dentro casa, li aiutò a lavarsi e a cambiarsi, li sfamò e li dissetò; poi chiuse la porta e le finestre, anche se faceva un gran caldo, e raccontò ai suoi figli, nei modi che lei sola conosceva, quanto era successo. Chi fosse passato di là, avrebbe udito intrecciarsi parole e lacrime adulte e bambine, per molto tempo; ma quando il piccolo conciliabolo si sciolse e la casa tornò a respirare l’aria fresca della sera, ogni traccia di risentimento, di vergogna o di incomprensione era sparita da quei visi e la cena fu silenziosa ma serena.
Quando il ventre di Maria lievitò, era già novembre inoltrato e col cappotto addosso quasi non si vedeva.
I bambini erano tranquilli e l’aiutavano: dal giorno della verità sembravano cresciuti all’improvviso e maturati. Adesso era la curiosità per quel nuovo tesserino che sarebbe giunto a movimentare la loro vita a prevalere sulla preoccupazione. In paese, poi, la dignità con cui quella giovane vedova aveva accettato e stava vivendo la gravidanza subita, colpiva tutti e tutti la rispettavano.
Lei, d’altra parte, era diventata ancora più bella: le sofferenze patite l’avevano affinata nei lineamenti e resa regale nell’espressione. Porta quella pancia come una regina era il commento ammirato che si sentiva in giro. I genitori di Maria ancora non sapevano nulla ma ormai era tempo di incontrarli e di parlare. Era riuscita a rimandare l’incontro dal giugno precedente, con mille scuse: il lavoro, i costi, i disagi di un viaggio in tempo di guerra e col caldo, poi le malattie dei bambini, il brutto tempo, la pioggia, i primi freddi. Ora sentiva che i suoi erano davvero preoccupati di questo distacco cercato. Allora programmò un soggiorno a Capri per il Natale venturo. Ogni sera, a letto, mentre con sollievo e sgomento, al tempo stesso, sentiva in ventre il guizzo del suo bambino, ripassava mentalmente quello che avrebbe detto. Lia spesso voleva tenerle una mano sulla pancia perché lei era già affezionata a quella sorella. Era sicura che fosse femmina e poi il fratello non lo voleva, ce l’aveva già.
D’altra parte, Maria, col passare delle settimane, si accorgeva di pensare sempre meno alle circostanze tragiche del concepimento e sempre più al miracolo della vita che germogliava dentro di lei. Si meravigliava di questi pensieri e ne arrossiva, sentendosi in colpa per quel pulviscolo di felicità che talvolta la investiva come una manciata di coriandoli a carnevale.
Come era prevedibile, il Natale a casa dei suoi fu drammatico perché una visione come quella, dell’unica figlia, vedova di guerra con due bambini, che si presenta a casa gravida di un soldato nero di passaggio, era troppo anche per due vecchi dal cuore d’oro come loro.
“Dacci tempo, dacci tempo” fu la frase più bella che seppero dire a Maria, frastornati, addolorati e delusi per essere stati tenuti così in disparte, fuori della sua vita e per aver rovinato quella dei suoi figli.
Il ritorno all’altra isola fu un sollievo indicibile, anche perché il viaggio in treno in un’Italia devastata dalla guerra e dove i collegamenti ferroviari funzionavano a singhiozzo, aveva rattristato enormemente Maria. I bambini, instancabili, erano comunque eccitati dalla novità della situazione, ma lei non si capacitava di vedere tante rovine e tanto abbandono. Aveva ritrovato sul continente, ingigantito, lo spettacolo di miseria materiale e morale della sua Elba: persone impaurite, volti scavati, città distrutte, campagne nella completa incuria.
Che follia la guerra! Che spaventosa voragine di distruzione di vite umane di progetti di speranze di desideri…che sperpero di beni di risorse di cose belle…
Anche quell’inverno difficilissimo in qualche modo passò: gennaio regalò nuovi grani di luce al rosario delle ore diurne, i mandorli si riempirono di bianco e il giallo delle mimose cominciò a baluginare tra il verde.
Le doglie colsero Maria proprio il 21 marzo, il primo giorno di primavera. Se l’aspettava da un momento all’altro perché il tempo era scaduto già da qualche giorno. Così, alle sette di mattina, mandò Giovanni a chiamare Dosolina, la levatrice, che abitava a un chilometro di distanza.
Poi spedì i bambini a scuola, come ogni giorno, malgrado le loro proteste.
Le acque si ruppero presto e i dolori grossi, quelli che sembrano non toccare mai il fondo della sofferenza perché di secondo in secondo aumentano la loro intensità fino a deflagrare come un’esplosione nell’utero sconvolto, si presentarono con regolarità favorendo una veloce dilatazione.
Nel giro di un paio d’ore una testolina crespa si fece strada verso la luce e prima di mezzogiorno la creatura abbandonava del tutto il grembo della madre. Dosolina emise un grido soffocato quando la raccolse: era la prima volta che aiutava a venire al mondo un esserino di colore.
“Femmina” annunciò e subito dopo “e nera…ma sta bene, sana e robusta!”
E la posò sulla pancia della puerpera, come era abituata a fare, perché sapeva che quell’atto era, al contempo, il suggello della sua professionalità, l’appello alla responsabilità materna e la soddisfazione più grande che una neomamma può ricevere. Maria, ancor prima di vederla, le accarezzò la testolina ricciuta; poi, facendosi coraggio, la guardò e non ce la fece a soffocare il pianto, malgrado fosse esausta, o forse proprio per quello, perché due sentimenti contrastanti la straziavano: la gioia istintiva d’aver partorito una creatura sana ma anche la conferma del marchio che l’avrebbe distinta, essere di colore, essere diversa da tutti.
“ Come la vuoi chiamare?” chiese l’ostetrica asciugandole le lacrime con la bambina in braccio, prima di passare alle operazioni di pulizia e di cura per entrambe
“La voglio chiamare Benedetta, perché oggi è San Benedetto e lei è una rondinella nera capitata per caso nella nostra casa” rispose Maria con la voce rotta dall’emozione
“Bel nome, le porterà fortuna! Ma chi ti aiuterà in questi giorni? Tua madre non poteva venire ad aiutarti?”
“C’è mia nonna che sta male, non può muoversi e poi…è meglio così, forse mi complicherebbe la vita…”
“Allora, sai che faccio? Mi trasferisco qui per qualche giorno, ti do una mano…ce l’hai un lettino per me? Tanto a casa sono sola… i tuoi figlioli porteranno qualcosa da mangiare alle mie gatte”
“Oh, Dosolina, grazie, grazie, il posto c’è, ho due lettucci in più per quando vengono i miei…ma come faccio a ricompensarti?”
“Non ci pensare, non voglio nulla, sei una brava ragazza e ci hai dato a tutti, in paese, una lezione di coraggio. Ora riposa, ché alla bimba ci penso io.”
Fu soltanto a un mese dalla nascita che Maria fece la sua comparsa ufficiale in paese, con Benedetta in carrozzina e Lia che l’aiutava a spingerla. Giovanni non si era voluto unire a loro perché aveva già avuto qualche dispiacere a scuola, dopo la nascita della sorella, e se ne rimase a casa tentando inutilmente di far volare un aquilone che si era costruito seguendo le istruzioni di un manuale. Suo padre gli mancava tremendamente: quante cose avrebbero potuto fare insieme! Era passato un anno e mezzo dalla sua morte e gli pareva un secolo. Quante disgrazie erano successe da quando lui non c’era più…
Poteva un ragazzo di undici anni sopportarle tutte? Anche quella sorella color caffellatte, come sarebbe stato meglio che non ci fosse stata! Che guai gli procurava! Certo che le voleva bene –era così carina- ma quante battute doveva sentire su di lei, sulla sua casa, su sua madre! E lui sempre pronto a difenderle, a stare a testa alta, a non accettare, quando poteva, le provocazioni. Anche la scuola ne aveva risentito.
Dopo un paio d’ore, la famiglia era di ritorno: “Com’ è andata?”chiese con apprensione
“Bene” rispose la madre, ma non aggiunse altro e i suoi occhi sembravano smentire le parole.
Da Lia, la sera, nella cameretta in cui dormivano insieme, seppe che tanta gente s’era avvicinata a vedere la piccina ma pochi avevano detto le belle cose che si dicono ai neonati e la mamma c’era rimasta male.
Allora, per distrarla, lei le aveva chiesto di andare a passeggiare sulla spiaggia. Avevano lasciato la carrozzina sul bordo della strada e si erano avvicinate al mare, con la bimba in braccio. La giornata era tiepida di sole e il mare una meraviglia. Si erano levate le scarpe e avevano camminato sulla battigia insieme. Solo allora, per qualche momento, aveva visto la mamma felice.
Le settimane passavano veloci e a Maria il tempo non bastava mai: aveva saputo che presto le sarebbe arrivato un sussidio mensile per i suoi figli, orfani di guerra, ma ancora non si vedeva nulla e ogni giorno bisognava mangiare e vestirsi. La piccola costava poco per ora perché la allattava lei e i vestitini erano quelli di Lia. Ma anche lei doveva nutrirsi se voleva produrre del buon latte e Benedetta era sempre affamata. Quando l’attaccava al seno, provava una pena indicibile per lei, per tutto quello che avrebbe dovuto sopportare nella vita; così, in un istinto materno affinato dal pericolo per la propria creatura, guardava di nutrirla bene, di non trascurare nulla, per farla diventare forte e corazzata contro i mali del mondo. Se la contemplava, quella figlia solo sua, che mai avrebbe conosciuto suo padre, che, anzi, si sarebbe vergognata di lui e della sua violenza. Eppure da quella violenza avevano preso vita questi immensi occhi scuri, questi capelli d’ebano, questa boccuccia rossa rossa…
Che mistero la vita e la morte!
Appena Benedetta dormiva, Maria si fiondava sul lavoro che per fortuna non mancava.
Ora che la nonna non c’era più, sarebbero venuti i suoi, a darle una mano. Ma di questo, a dire la verità, non sapeva se rallegrarsi o dolersi.
Passarono, abbastanza serenamente, tre anni: Giovanni frequentava nel capoluogo dell’isola le scuole commerciali, Lia la scuola media. Maria ci teneva moltissimo a farli studiare, anche per Franco che aveva sempre rimpianto di non averlo potuto fare. Tutte la mattine prendevano la corriera e all’una e mezzo erano di ritorno. Le esperienze vissute ne avevano fatto dei ragazzi più grandi della loro età anagrafica e lei era fiera di loro. La piccina avrebbe presto cominciato l’asilo dalle suore.
Maria aveva dimenticato se stessa per vivere esclusivamente il suo ruolo materno. Era giovane, era bella: qualcuno le era andata a dire che in paese c’erano pretendenti per lei, che si sarebbero accollati l’onere di una famiglia numerosa e particolare come la sua, pur di averla. Ma Maria respingeva con una risata queste notizie: la disgrazia aveva congelato i suoi desideri di donna, la sua stessa femminilità.
Non poteva pensare al sesso se non in termini di strazio e di violenza. Non voleva andare col pensiero nemmeno ai suoi amplessi con Franco. Tutto le faceva ribrezzo.
Il primo giorno d’asilo, Benedetta era tutta eccitata: Maria le mise dei fiocchetti rossi tra i capelli e curò che il grembiulino a quadretti bianchi e rosa fosse perfetto. La sua bambina usciva allo scoperto, cominciava la vita sociale: come sarebbe andata?
Quando andò a prenderla, la vide triste e con gli occhi rossi. La suora la prese in disparte e le disse che doveva capire, che i bambini si dovevano abituare, che era una novità per loro avere una compagna scura di pelle e che, se riteneva opportuno non esporla troppo, se la tenesse pure a casa, sicuramente avrebbe sofferto meno.
Maria rispose con fermezza che sua figlia avrebbe frequentato quella scuola come tutti gli altri e che l’indomani sarebbe ritornata. Così successe e presto i bambini non fecero più caso a quell’amichetta diversa, abbronzata tutto l’anno, con due buffe treccine, il naso schiacciato, le palme della mani e dei piedi bianche bianche, ma allegra, simpatica e che sapeva tanti giochi.
Così l’esperienza della scuola materna, cominciata male, proseguì meglio.
Un giorno, Benedetta, appena rientrata, chiese alla mamma, con la sua vocetta squillante che assomigliava a tanti campanellini d’argento:
“Mamma, ma io sono una brutta anatroccola?”
“Perché dici questo, tesoro?”
“I bambini mi chiamano così all’asilo…”
“Spiegami tutto dall’inizio…” la invitò la mamma, lasciando quel che faceva e prendendosela in braccio.
“La suora ci ha raccontato la storia del brutto anatroccolo, la sai, vero?…quella di un piccolo cigno che nasce insieme a tanti anatroccoli…la sua mamma non si era accorta che covava un uovo diverso insieme ai suoi…e così nasce un pulcino che non assomiglia agli altri…mamma anatra lo cura, gli vuol bene, ma gli altri no, gli fanno mille dispetti…quanto soffre poverino…sai mamma, a me mi sembra d’essere come quel brutto anatroccolo, perché sono diversa dagli altri bimbi…e anche a loro sembra come a me, mamma, perché, mentre la suora raccontava, mi guardavano e alla fine mi chiamavano brutta anatroccola. La suora li ha sgridati e hanno smesso, ma io lo so che ricominceranno quando la suora non li sente…” e si mise a singhiozzare
Maria sapeva che sarebbe accaduto, ma non così presto. Cercò di tamponare, come poté.
“Ma la suora ve l’ha spiegato bene il finale di quella fiaba?”
“Sì!” rispose la bimba, calmandosi “quel brutto anatroccolo diventa un cigno bellissimo, s-t-u-p-e-n-d-o e gli altri anatroccoli in confronto a lui sono brutti!” concluse trionfante
La mamma pensò che per quel giorno poteva bastare, che era meglio fermarsi lì, non affondare il bisturi, non provocare la domanda tanto temuta Mamma perché sono così?
Ringraziò Dio del bel carattere della sua piccina, sensibile, orgogliosa ma anche positiva e razionale, che sapeva superare i momenti di difficoltà cercando un’ancora qualsiasi a cui appigliarsi, emergendo dopo l’apnea un po’ ammaccata ma sostanzialmente incolume.
La guardò: le ispirava una tenerezza infinita per la sua intelligente bontà e per quel visetto scuro dove spiccava per contrasto il bianco degli occhi. Badava a vestirla sempre con colori caldi che si accordassero al suo incarnato. Giovanni e Lia l’adoravano: la sorella le costruiva bamboline di pezza, il fratello aquiloni e, quando andava a pescare sul molo, il pesce più bello che prendeva era per lei.
Fu diversi anni dopo, alla scuola elementare, che arrivò quella domanda che Maria temeva: perché in classe si era parlato di guerra, di quello che era successo pochi anni prima, i bombardamenti, l’occupazione tedesca, la liberazione. La maestra aveva raccontato che i soldati liberatori erano sbarcati proprio intorno alle spiagge del paese; che erano tanti, forti e coraggiosi e che venivano a scacciare i cattivi tedeschi. Aveva detto che la battaglia era durata una settimana e che era stata vinta dai buoni. Però aveva aggiunto che fra quei buoni c’erano anche persone che si erano comportate male, specie con le donne, e che i risultati si vedevano perché tra loro c’erano bambini di colore. Allora tutti avevano guardato i tre bambini che in classe avevano la pelle più scura, come se l’abbronzatura dell’estate non finisse mai per loro, nemmeno a gennaio, nemmeno se stavano tutto il tempo al buio. Benedetta era fra di loro e ora, dalla mamma, voleva saperne di più.
Maria sospese il suo lavoro, s’accertò di poter stare da sola con sua figlia almeno un’ora e raccontò a sua volta, dopo la maestra. Le parlò di un soldato nero che combatteva per i bianchi, suoi padroni: aveva dovuto lasciare la sua terra in Africa, il suo lavoro, la sua famiglia rischiando di essere ferito o di morire; aggiunse che lui si sentiva molto solo e spaesato, che lo sbarco sull’isola era stato un inferno, che per poco non era rimasto ucciso sulla spiaggia, come molti dei suoi compagni. E che il giorno dopo, ancora frastornato e forse sotto l’effetto di strane medicine, che i padroni bianchi davano ai neri per fargli coraggio buttandoli per primi sulla spiagge minate, si era perso per le vie del paese. Girovagando aveva trovato una casetta, la loro casetta, con un bel giardino fiorito di gerani e una porta aperta perché era giugno e faceva caldo: lui aveva tanta sete e si era affacciato per chiedere un bicchiere d’acqua. Dentro c’era una donna con i capelli neri e ricci, come la sua fidanzata africana, e allora aveva dimenticato anche la sete perché aveva più sete di baci e di carezze e perché aveva tanta paura di morire. Non si era accorto che lei non voleva e aveva fatto l’amore con lei, per sentirsi meno solo. Poi era andato via, perché i padroni bianchi lo aspettavano, ma qualche giorno dopo era morto in battaglia.
Maria raccontò senza interruzioni, senza guardare negli occhi sua figlia, per non tradirsi, ma anche perché temeva la sua reazione. Quando alzò lo sguardo su di lei, la vide tesa, concentrata, come se stesse sostenendo una lotta furibonda, dentro di sé, tra l’accettare un padre prepotente, riconoscendogli tutte le attenuanti del caso, o respingerlo per sempre, odiandolo fino alla fine dei suoi giorni. Maria le vedeva la fronte imperlata di sudore, i pugni chiusi, gli occhi al pavimento. Non pronunciò parola per un quarto d’ora, poi: “Ma tu lo sai come si chiamava mio padre?”
La donna capì che l’aveva accettato, che la bontà aveva avuto il sopravvento sul risentimento: era salva, perché non avrebbe dovuto albergare l’odio nel suo cuore. La strinse a sé, quando scoppiò in lacrime, e piansero insieme, per la prima volta.
“No, tesoro, ma se vuoi, lo possiamo sapere, basta fare delle ricerche…” riuscì a dire, soffiandosi il naso.
Benedetta divenne un fiore di ragazza, una mulatta bellissima: alta, flessuosa come il giunco, con un viso che, negli occhi, ricordava la scura terra africana e nella bocca la sensualità della sua mamma coraggiosa. Lia ne andava orgogliosa e la esibiva come un trofeo; Giovanni ne era geloso, come tutti i fratelli, ma con pizzico di apprensione in più. Col tempo, fu pienamente accettata dalla comunità in cui viveva e da tutto il parentado caprese. Volle studiare e superò il liceo brillantemente. Quando già i suoi fratelli avevano messo su famiglia e qualche filo d’argento si mescolava alla capigliatura corvina di sua madre, andò all’università e nei tempi regolari, sempre usufruendo di borse di studio per i voti e la condizione economica, si laureò in Diritto Internazionale.
Maria, come tutte le mamme, pativa per l’assenza della figlia e sperava nel ritorno definitivo. Ma a Benedetta l’isola stava stretta e non solo quella. Forse per le sue origini, si sentiva cittadina del mondo e aspirava a un lavoro che la facesse viaggiare e risiedere ovunque. Imparò bene l’inglese, poi si tuffò nei concorsi internazionali e riuscì ad avere un incarico come dipendente dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Chiese di svolgere in Senegal il suo primo lavoro perché, da ricerche compiute, era venuta a conoscenza della nazionalità di suo padre e del suo nome, Karim Camara. Non fu difficile risalire alla sua famiglia e amare e aiutare quel Paese nei suoi sforzi di diffondere la cultura panafricana e la negritudine.
Fu così che la brutta anatroccola divenne un magnifico cigno nero.