● Piero Pietri
Quando quella mattina di maggio mi affacciai da San Piero sulla piccola valle accesa di ginestre, vidi qualcosa di cui prima non mi ero mai accorto. Sul declivio che risaliva il poggio verso la Scorcia, la stradina che da secoli portava dal Colle al Piandimezzo, mi pareva di veder baluginare tra il giallo e il verde una macchia di bianco; un rudere, forse, certo qualcosa costruito dall’uomo. Qualche mese prima, ero allora – trent’anni fa – fresco direttore della Clinica chirurgica dell’Università di Modena, mi ero legato di amicizia con una famiglia di Marina di Campo e ora mi si prospettava l’occasione di costruirmi una villetta da queste parti, qui dove era nato il mio Babbo che ora dormiva nel minuscolo cimitero di Sant’Ilario.
Già, ma costruire dove? L’amico di Campo mi aveva mostrato varie possibilità, tutte invitanti. Ma io quella mattina avevo scoperto la Vallicella, incontaminata e splendente, con i suoi terrazzamenti dove per secoli i Sanpieresi avevano duramente faticato a sterrare i fianchi del colle per un po’ di grano e di vino; e ora avevo anche intravisto il piccolo rudere.
Consultai le vecchie carte, vi era scritto «Oratorio». Lo raggiunsi, annegato nel cisto fiorito, e constatai che si trattava di una modesta costruzione ormai in rovina, con un altare disastrato e una immagine della Madonna stinta dagli anni; crepe paurose ne minacciavano le pareti che sembravano reggersi per miracolo, l’antico pavimento scomparso sotto un piano di smunte mattonelle, le tinte dei muri sommerse da mani impietose che vi avevano stesi strati di vernice biancastra scompaginando ogni traccia di antiche decorazioni. Il tetto pericolava, le travi cedevano. Ma intorno che pace, che silenzio, che luce!
Una vera «hora quietis», con la corona di tre cipressini che guardavano il Giglio tra gli spini caprini e il viola delle lavandule. Non avevo scelta, e fu certo la Cappellina a invogliarmi all’acquisto e alla costruzione della strada che dalla provinciale avrebbe dovuto scendere nel cuore della Vallicella.
Così la nuova casa mise le ali e a poco a poco mi ritrovai elbano «doc» come erano i miei avi materni Battaglini e Mibelli che per secoli avevano abitato quei poggi. Rimaneva un dubbio, chi e quando aveva costruito quella minuscola casa di preghiera?
Nei documenti che risalivano alla fine del Settecento non se ne trovava traccia; e intanto avevo scoperto che il tempietto era passato nel corso di almeno duecent’anni di mano in mano e ora apparteneva a ben sei proprietari diversi, dispersi tra l’Elba, l’Argentina e l’Australia, secondo le buone tradizioni isolane.
Sul catasto quella che nei suoi anni belli era certo stata una Cappellina di riferimento e di culto, figurava ora degradata a «per attrezzi», anche se la devozione popolare non era venuta mai meno e accanto all’immagine sacra non erano mai mancati fiori e lumini accesi. Da tempo immemorabile i vecchi di San Piero ricordavano dal racconto dei nonni che il martedì dopo la Pentecoste il Parroco vi era sempre sceso a dir messa.
Tutti la chiamavano «La Madonnina delle Grazie». La Scorcia che scende dal Colle ai Mulini e al Piandimezzo era una di quelle stradine che i Sanpieresi percorrevano fino ad una quarantina di anni fa per raggiungere il piano dove molti avevano le vigne e i magazzini per lavorare l’uva e ricoverare il grano macinato…era quindi, come del resto è anche oggi, poco più di un sentiero scosceso ma allora molto trafficato perché era la via dei somari che la percorrevano per portare gli uomini alla campagna, mentre le donne tradizionalmente seguivano a piedi. È difficile immaginare oggi l’andirivieni di allora di uomini e bestie su e giù per questi sentieri sassosi, ora deserti tra la macchia mediterranea.
Si cominciava d’inverno a gennaio con la potatura delle viti, seguita a febbraio e a marzo dalla zappatura della terra. Qui la terra era buona, alluvionale, non quella aspra e dura del poggio che doveva essere lavorata a pianelli col bidente, tirando su i muretti a sasso. Avanzando la stagione era ancora necessario palare con le canne messe a capannello, mentre le donne tenevano le mazzette dei giunchi legati a doppio alla vita e con questi spollonavano e legavano tra loro le cime delle viti. Dopo le piogge di primavera gli uomini zappavano ancora lentamente le viti e guardavano il mare. Intanto veniva l’estate con le sue attese, le sue speranze e le sue delusioni: allora la gente si sentiva più legata alla terra e al cielo e si fermava spesso con gli occhi a scrutare il colore delle nuvole e ad ascoltare i tramestii del vento. Alla vendemmia di settembre l’uva veniva messa negli stivigli e rovesciata nei tinelli di legno…Più tardi i somari la portavano ai magazzini dove i ragazzi la pigiavano coi piedi dentro la gabbia del palmento. Su tutte queste attività vegliava dall’alto la Madonnina delle Grazie, posata sulla via a benedire il lavoro degli uomini. E quante notizie, quanti arrivederci sul minuscolo sagrato tra chi salutava gli amici con le parole semplici che parlavano di campagna e di raccolti.
Sembravano più innocenti anche gli occhi dove la cispa era spesso l’anticamera della povertà…
Quante mute preghiere hai sentito salire a te, Cappellina della Vallicella, nei tuoi due secoli di vita; quante ne avrai portate lassù e trasformate in grazie per questa isola benedetta, tra le lacrime e le risa che sono il destino degli uomini…
Gli anni passavano per tutti. Per me che da Modena mi ero trasferito a Trieste e poi ero tornato a Milano in quella Università da dove ero partito tanto tempo prima; per Bianca che mi aveva seguito dandomi il coraggio di andare avanti; per Andrea e Marco che erano nati come i fiori più attesi; ora anche per il piccolissimo Riccardo, il nipotino che aveva rinnovato la nostra gioia dopo un lungo aspettare; per le foglie degli alberi che a ogni stagione si erano consumate e rinnovate; per la Chiesina delle Grazie che sempre più si logorava e si avviava alla completa rovina.
Ci passavo ore rivivendone la lunga esistenza e immaginandone gli inespressi sentimenti.
Anche se non si dice, all’Elba tutte le cose hanno un’anima, lieta o triste che sia. È quella che custodisce le memorie delle generazioni che di lì sono passate e le ascolta, le raccoglie, ne penetra i sassi nell’odoroso consenso dei lentischi che vi fanno corona.
A volte, nell’ozio della canicola o nella luce magica della sera, mi sorprendevo a grattare e scrostare col dito i frammenti dei vecchi muri, facendone emergere segni di date sepolte nel mistero, annotate da mani pietose che ormai non scrivevano più…da quegli intonaci spenti affioravano figure di foglie, ghirlande di fiori, immagini di altre epoche. Intuivo le decorazioni nascoste, soffocate nella polvere, logorate dal tempo.
Erano lì, mi guardavano, cercavano di parlarmi. Fu allora che decisi che non potevo più aspettare e mi dissi che l’attesa doveva finire. I vecchi muri annuirono, compresero, lo dissero agli spini caprini, alle ginestre, alle lavandule, ai cisti, ai tre cipressini appollaiati sul ciglio della valle, ai lecci, alle mortelle, al Giglio e all’Argentario lontani, al mare luminoso di Campo. Le mie ricerche divennero allora febbrili, seppi ritrovare nomi e indirizzi dei proprietari oltre mare, cercai gli amici sapienti, quelli più bravi, quelli che parlano alle cose e che mi avrebbero aiutato a fermare il tempo nel tentativo di tornare a ciò che una volta era stato. Perché a volte le cose morte si svegliano; forse non sono mai morte e aspettano una nuova vita. Dal suo pinnacolo, al di sopra delle nostre piccole cose, Nostra Signora della Vallicella sorrideva benedicendo le nostre speranze.
● Girolama Cuffaro
Contagiati dall’entusiasmo del professor Pietri, pur tra molti dubbi motivati dalle obiettive, pessime condizioni della Chiesina, ma tuttavia stimolati dalla difficoltà dell’impresa e dal fascino del luogo, Silvestre ed io iniziammo il restauro pittorico. La «pietas» che ci ispira ogni oggetto che attiene al passato è stata la molla determinante per questo entusiasmante incontro con la cappellina della «Madonna delle Grazie».
L’abbiamo scelta o siamo stati scelti? Va detto che a monte del restauro pittorico era stato necessario un accorto consolidamento della struttura; parte segreta e spesso improba di ogni filologica restituzione, di cui si è occupato l’architetto Paolo Ferruzzi.
● Silvestre Ferruzzi
L’otto gennaio 1998 ebbe inizio il nostro lavoro. Dopo il necessario consolidamento delle pareti e del tetto, vennero ripuliti i travicelli in castagno e le pianelle in cotto, coperte da svariate imbiancature nel corso di due secoli. Rimanevano le quattro pareti; pure ricoperte da ben sette strati di sovradipinture, celavano la decorazione originaria, la più ricca e preziosa. A quella dovevamo arrivare. Asportati i sette strati, giungemmo alla antica base; si trattava di splendide decorazioni con parti a «trompe l’oeil» architettonico. Dapprima ci concentrammo sulla parete dell’altare, e venne fuori – assolutamente insospettata – un’edicola dipinta, in perfetta prospettiva centrale, che incorniciava la nicchia rettangolare dove in un tempo lontano si trovava il quadro della Madonna delle Grazie.
C’è da dire che prima del restauro questa nicchia si presentava diversamente; negli anni ’50 era stata parzialmente tamponata e ristretta per allocarvi una moderna immagine in gesso, alterandone pure la sommità, risolta con un piccolo arco. Avevamo davanti un timpano in marmo dipinto, due esili colonnette ioniche con fusto in porfido paonazzo e capitelli dorati. Tutto straordinariamente realistico. Lo studio delle ombre, dei riflessi sul porfido, sul marmo…
A quest’architettura faceva da sfondo un drappo – chiaramente sempre dipinto – come di damasco, sorretto da bastoni, che ricopriva la parete dell’altare e parte delle due laterali. Su fondo ocra rossa si scorgevano festoni verticali alternativamente dipinti in giallo chiaro e grigio cenere. Le pareti rimanenti erano in rosa carne, delimitate in basso e in alto da due fregi continui a motivi vegetali in paonazzo. Questi ultimi erano praticamente identici a quelli che si possono riscontrare in varie residenze elbane di epoca napoleonica, prima tra tutte la villa di San Martino. Il basamento perimetrale della cappellina, sempre all’interno, imitava un granito scuro.
I primi mesi di restauro – spesso percorsi da scoraggiamenti e fatiche – richiesero l’uso di bisturi appositi e soluzioni di ammoniaca; bisognava ripulire ogni centimetro quadrato di superficie. Uno per uno.
Terminata questa fase, venne il momento di riprendere con i colori le parti che mancavano; nei limiti del possibile, beninteso, e nel modo più filologico. Anche per i pigmenti usammo quelli dell’epoca, vale a dire terre naturali in polvere con aggiunta di collante naturale e acqua.
Restava ora l’esterno della «nostra» Cappellina. Avevamo fatto dei piccoli saggi in facciata; ci accorgemmo che in antico erano stati usati due stessi colori presenti all’interno. L’ocra rossa del drappo per le paraste d’angolo, il giallo chiaro dei festoni per il resto delle parti esterne.
Alle volte pensavamo di non vederne mai la fine. Ma la fine la vedemmo poi il 24 maggio dello stesso anno. Ricorderemo sempre quel cielo, quelle ginestre, quei cisti che resero meno impossibile la nostra avventura.
La Madonnina delle Grazie in una vecchia immagine
Interno della cappellina prima del restauro (gennaio 1998)
Interno della cappellina dopo del restauro (giugno 1998)