Il 22 gennaio scorso si è tenuto il Convegno “L’acqua che c’è” che abbiamo fortemente contribuito ad organizzare. L’evento ha registrato un grande successo in termini di partecipazione e questo costituisce il nostro primo obiettivo. Quasi 300 persone hanno seguito senza soluzione di continuità l’avvicendarsi di autorevoli relazioni e gli interventi di persone che hanno voluto manifestare il proprio libero pensiero. Tra i presenti in sala e coloro che erano collegati in remoto c’erano anche molti nostri soci e questo ci riempie di orgoglio. A testimonianza che il nostro passaggio lascia spesso tracce indelebili che si manifestano soltanto perchè frutto della passione che ci contraddistingue, alleghiamo l’articolo della nostra amica e socia Gisella la cui lettura così delicata e toccante ci fa ritrovare nella speciale area dei nostri valori condivisi.  

(foto di Alessandro Beneforti) 

Chiare, fresche e dolci acque isolane

Maria Gisella Catuogno

Il convegno “L’acqua che c’è”, che si è tenuto sabato 22 gennaio, nella sala Nello Santi della De Laugier, ha avuto il merito di sensibilizzare la popolazione elbana su una problematica che non deve appartenere soltanto agli addetti ai lavori, bensì a tutti coloro che per nascita, residenza o “corrispondenza d’amorosi sensi”, come avrebbe detto il Foscolo, amano quest’Isola e ne hanno a cuore il presente ma soprattutto il futuro, per le generazioni che verranno. Il tema è quello dell’acqua, la risorsa in assoluto più preziosa e insostituibile per l’esistenza stessa delle creature viventi. Di risorse sorgive il nostro territorio è ricco, come dimostra la toponomastica stessa dell’Elba: Acquaviva, Acquabona, Acqua Moresca, Acquarilli, Acquavivola, Tre Acque, Acqua Calda… e l’elenco potrebbe continuare. Nei secoli passati tale era l’attenzione alle riserve idriche che i romani costruirono alle Grotte, più che una villa residenziale, una sorta di deposito-santuario del prezioso elemento, forse dedicandolo a divinità acquee – ce lo diranno i prossimi studi del sito archeologico –; e al Cavo, dove sorgeva la villa romana di Capocastello, sul colle del Lentisco, grandi cisterne, tuttora visibili, e sormontate allora da un tempietto a colonne preceduto da una scalinata e ora da un’abitazione moderna in totale abbandono, soddisfacevano il bisogno idrico di tutto il complesso. Sappiamo che Portoferraio ha un’altra città sotterranea sotto di sé, costituita da ampie vasche per la raccolta dell’acqua, che l’avrebbero resa autonoma in caso d’assedio.
Fino a tempi relativamente recenti, poi, le abitazioni disponevano di cisterne autonome sia per usi domestici che per l’irrigazione.
Rio (Rivus) deve il suo nome all’abbondanza di acqua che azionava i venti mulini che la separavano dalla sua “piaggia”; il Teatro della Fonte della Madonna del Monte tuttora disseta l’escursionista o il pellegrino con la bontà e la freschezza della sua acqua. Per non parlare della fonte di Napoleone, a cui attinse lo stesso imperatore per riprendere slancio, come ricorda la lapide in sua memoria, dopo le sconfitte subite.
Insomma, una volta, l’attenzione all’acqua e alla sua preziosa unicità era molto viva. Oggi molto meno: la condotta sottomarina che ce la garantisce ha esaurito la sua vita fisiologica e, senza interventi ad hoc, potrebbe collassare da un momento all’altro; le perdite della rete dimezzano la disponibilità e non si interviene per ripararle; non si progettano invasi per raccoglierla e la lasciamo finire in mare.
A fronte di tale imperdonabile trascuratezza si progetta invece un’opera, il dissalatore, che, come hanno testimoniato e documentato gli illustri relatori in presenza e in remoto, basandosi sugli effetti di opere simili in altre aree, ha un impatto ambientale forte, oltre a non garantire una qualità d’acqua eccellente e priva di rischi per la salute. E come località si sceglie un’area di pregio, fortemente antropizzata, che l’inquinamento deturperebbe. Possibile che non esistano altre soluzioni? I suggerimenti degli esperti sono orientati a un sistema di approvvigionamento idrico differenziato, che non dipenda da un’unica risorsa – anche in questo caso l’unicità si coniuga con la vulnerabilità – ma che valorizzi l’esistente rimediando ai guasti prodotti e trascurati ed evitando una soluzione univoca, obsoleta e mortificante per l’ambiente e chi ci vive. Forse è il caso di ascoltarli.

 

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