Da archeologo, sono rimasto molto impressionato dalle immagini mostrate da Lorella Alderighi (Soprintendenza Archeologia della Toscana) sull’importante insediamento neolitico di recente scoperto a Pianosa. Non avendo potuto esprimere pubblicamente il mio compiacimento venerdì pomeriggio, lo faccio a mezzo stampa. Quello di Pianosa, appena illustrato, è un percorso di tutela, di valorizzazione e di ricerca che spero vada avanti e venga aiutato e sostenuto adeguatamente.
E veniamo al nostro Parco.
Molti saperi, un unico fine.
Nel corso dell’importante convegno “RomArchè” della settimana scorsa, qualcuno ha affermato un concetto che è anche un po’ un auspicio: “ibridazione delle competenze e dei saperi”. In poche parole, d’ora in avanti e in maniera innovativa, chi sa fare-pensare-produrre qualcosa può migliorare fortemente l’efficacia delle cose che fa-pensa-produce semplicemente facendo interagire la sua propria sapienza con altre sapienze. Non si tratta di una semplice somma di conoscenze e di saperi tecnici ma di una moltiplicazione, quando cooperazione e interoperabilità funzionano al meglio. Non si tratta di sopprimere le specializzazioni nei diversi settori. Queste, al contrario, devono continuare ad affinarsi e ad aggiornarsi. Si tratta di confrontarsi e integrarsi. Anche in un lavoro apparentemente “tradizionale” come quello del fornaio assistiamo, in realtà, anno dopo anno, ad un progressivo affinamento delle procedure per fare il pane. La memoria ci spinge a credere che fosse migliore il pane di una volta e, qualche volta, di fronte a produzioni industriali votate unicamente al profitto, è vero. In realtà, oggi, i nostri fornai sono molto più avanti nella scelta delle farine, dei grani, dei processi di cottura, grazie al confronto con agronomi, agricoltori, medici, nutrizionisti. La loro sapienza di panettieri resta basilare ma viene arricchita e positivamente contaminata dal contatto con gli “altri”.
Ostacoli da rimuovere, barriere da superare.
Andiamo verso un superamento della finora rigida separazione fra beni ambientali, beni archeologici, beni monumentali, beni storico-artistici, beni paesaggistici, beni etno-antropologici. In una stessa geografia devono potere intervenire le diverse competenze in maniera armonica o qualcosa, sicuramente, andrà danneggiato. I diversi luoghi vanno ripensati non come pura sommatoria, ancora una volta, di occorrenze geologiche, naturalistiche e storico-archeologiche a vario titolo, ma come tessuti dalla trama più o meno unitaria e coerente in cui possono aversi emergenze di varia natura e tipologia. L’approccio del futuro sarà quello di pensare i nostri luoghi e le nostre geografie come patrimoni territoriali o paesaggistici, che andranno tutelati, valorizzati e comunicati in maniera globale e nel modo migliore.
Questo tipo di atteggiamento mentale e culturale deve necessariamente discendere dalla collaborazione ampia fra istituzioni, mondo della ricerca e della tutela, associazioni, imprese, scuole, semplici cittadini, intesi tutti come attori primi nello scenario del paesaggio contemporaneo. Questo momento, soprattutto all’Elba e soprattutto dal punto di vista di un archeologo, è un momento felice dal punto di vista della collaborazione fra tutela, università, imprese vitivinicole e del turismo, scuole, associazioni. Non potremmo esistere e faremmo davvero molto poco senza il sostegno e la collaborazione di persone come Cecilia Pacini, Maria Gisella Catuogno, Carlo Vittorio Anselmi.
In futuro.
L’Elba, da questo punto di vista e in questo momento, è un po’ un laboratorio privilegiato: molte forme di ibridazione sono, infatti, già in corso. Personalmente, sono molto contento della mia collaborazione con Marco Benvenuti, geologo della Università di Firenze, e con Alessandro Corretti, storico e archeologo della Scuola Normale di Pisa; ma anche della collaborazione con Claudio Milanesi, paleobotanico della Università di Siena che ci sta aiutando a ricostruire il paesaggio vegetale antico della rada di Portoferraio. Ma il discorso non si ferma qui. Archeologi, naturalisti e geologi non parlano soltanto fra sé ma hanno un rapporto molto stretto con agricoltori e vitivinicoltori elbani (fra i quali Antonio Arrighi), con i quali condividono il desiderio di capire insieme i meccanismi di uso del suolo nel tempo. La domanda del momento è: è pensabile ed è economicamente sostenibile il recupero degli antichi vigneti terrazzati? Un’altra, importante, riflessione, riguarda il rapporto fra patrimonio e turismo di qualità (anche da questo scaturisce lo stretto rapporto con Valter Giuliani ed ElbaTaste). Lo stesso può dirsi a proposito delle straordinarie attività di guida ambientale di Cinzia Battaglia e al sempre maggior valore che stanno acquistando via via che si ibridano sempre di più con i valori storico-archeologici.
Una breve notazione personale: questi gruppi armoniosamente costituitisi non nascono dal niente. Servono anni di contatti, di dialoghi, di costruzione di un linguaggio condiviso. Si tratta, dunque, di un patrimonio da conservare, da consolidare, da incrementare, proprio perché è, ormai, un patrimonio della comunità.
Che cosa c’entra il PNAT, potremmo dire, arrivati a questo punto? Credo che il Parco del prossimo ventennio dovrà sempre più e sempre meglio governare e orientare questi processi. Le tutele, nelle loro diverse forme (ambientale, storico-archeologica, culturale), passano anche attraverso il consolidamento delle consapevolezze culturali della comunità.
Anche se i momenti difficili ci sono stati e nulla si fa da sé, il PNAT è una realtà coerente e radicata oggi nella comunità dei cittadini. E’ un’opportunità con la quale dialogare fruttuosamente.
Franco Cambi, Università di Siena
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