Un petit tour sui passi perduti dell’Imperatore
“Si cela continue – esclamò il colonnello Vincent – il nous fera de l’Etoile une lune ou un soleil!”. La reggia dei Mulini cresceva baldanzosamente al posto di una specie di piccola casbah di stamberghe e magazzini venuta su in un paio di dì secoli ai piedi del Forte Stella, uno dei cardini del dispositivo di difesa di Portoferraio. Chi voleva Napoleone, lo trovava lì, in mezzo ai muratori e ai carpentieri, mentre arrivavano carichi di pietre, di mattoni, di legname. S’intrometteva, domandava, comandava, mai fermo, ora su un’impalcatura ora accanto a un mucchio di macerie. Sembrava volesse fare tutto lui, l’architetto e il manovale, abbracciando ogni cosa, proiettando la sua grandezza su ogni cosa, così l’impressione che se ne poteva avere era che lassù, sotto gli antichi baluardi medicei, stessero rinascendo le Tuileries. Ma si poteva anche pensare più ragionevolmente che si stesse carezzando un’illusione, una chimera, una mèta in qualche modo dissociata dalla realtà, cui richiamavano, impietose, le modeste proporzioni del sito. Insomma, se c’era spazio per l’entusiasmo, c’era anche spazio per un po’ d’ironia. Il colonnello Vincent amava l’imperatore, ma non era un uomo privo di spirito.
La fabbrica venne su rivelando delle linee dignitose e non appena il tetto fu coperto ci piantarono una bella bandiera, mentre dove ancora si incespicava tra gli imbarazzi e i ferri dismessi facevano festa intorno a una grande tavola imbandita.
Cominciò in modo molto borghese la vita della residenza ufficiale del sovrano dell’Elba. Nondimeno i giorni che vi corsero successivamente furono all’insegna della regalità e fu un capo di stato quello che ricevette lord William Bentink o il marchese Litta, che a nome della carboneria venne a chiedergli di mettere la sua spada al servizio della causa italiana, o altri personaggi di rilievo, tutti obbligati al rispetto di un rigoroso cerimoniale. Non vi mancò la mondanità, con balli che concentrarono nel grande salone del primo piano tutta la crème dell’isola, gli ufficiali, le signore, le cui toilettes arricchirono in breve tempo gli usurai, poiché se c’erano localmente famiglie doviziose, non lo erano al punto da poter reggere lo sforzo di serate a corte, specie da quando ci mise piede Paolina, sempre avvolta nello splendore di rari veli e di costosissimi gioielli. Si danzava – lo stesso Napoleone, pessimo ballerino, azzardava di tanto in tanto una gavotta – e si andava a teatro, senza uscire dalla reggia. Bastava attraversare un giardino fiorito di rose – la passione di Giuseppina – per trovarsi davanti a un palcoscenico sul quale si avvicendavano compagnie di giro con un cartellone non sontuoso, ma capace di intrattenere piacevolmente o anche filodrammatici pescati tra gli ufficiali più giovani e le dame di compagnia di Paolina, come lei leggere e disinibite, che di norma si proponevano in commedie brillanti.
Dopo l’ultimo applauso, quando familiari e ospiti si erano ritirati, poteva vedersi un lume brillare nel cuore degli appartamenti imperiali. Per una sua eccentricità, Napoleone alternava il sonno alla veglia più volte, durante la notte. Desto, scriveva o leggeva, attingendo alla biblioteca che poi avrebbe lasciato in dono al Comune di Portoferraio. Questa in parte lo aveva seguito nel suo viaggio dalla Francia all’Elba e in parte veniva accrescendosi con nuovi apporti. Al momento dell’ultimo acquisto, essa contava circa duemilacinquecento volumi, distribuiti tra le più diverse discipline, dalla storia alla scienza militare alla matematica alla letteratura alla filosofia al diritto alla teologia all’agricoltura. Numerose erano le opere sulla Corsica. S’imponeva per la sua mole la raccolta del “Moniteur universel” dal 1789 al 1813. Sui suoi libri, quasi tutti rilegati in pelle, con stampigliata in oro l’indicazione della provenienza, Fontainebleau, Saint- Cloud, o il logo di un trascorso proprietario, invariabilmente della famiglia imperiale, il cardinale Fesch, Paolina, Carolina, Napoleone viaggiava fra tradizione e modernità, calato nel suo ruolo di protagonista tra due secoli. Gli erano compagni, nella speculazione, Voltaire e il Velly, il Saint-Real e il Villars, Lecomte e Rosemond. Coltivando un bisogno d’abbandono, poteva adire alla poesia o alla narrativa: lo aspettavano i Contes et nouvelles en verse di La Fontaine, la Nouvelle Eloise di Rousseau, Julia ou le souterraines de Mazzini, della Radcliff, Les enfants de l’abbaye della Roche, le Notti di Young. Una galleria dove si inseguivano ammonimenti moralistici, struggimenti patetici e caligini gotiche: assortite sorgenti di emozioni di immancabile effetto.
I Mulini chiedono di essere il punto di partenza di un petit tour, da percorrere consapevoli di continuare a non incontrare diorami magniloquenti, ma tracce suggestive, segni di un passaggio da rivivere più nel quotidiano che nel mito: come il teatro fatto costruire dall’imperatore fuori dal Palazzo, con il quale nacque l’Accademia dei Fortunati – “A nous la faveur du sort!”, il suo clangoroso motto – insieme a una guerra sotterranea, ma senza esclusione di colpi, per l’accaparramento dei palchi, il cui costo, sempre esoso, cresceva nella misura della loro prossimità a quello imperiale, sormontato da una grande corona di legno luccicante di porporina. (La si può vedere, ora, tolta dal suo contesto, spaesata, in una chiesa e ci si domanda perché non possa tornare laddove guardava il sipario dipinto da un buon pittore Revelli che, invece, meno male, è ancora dove fu pensato).
Oltre le mura di Portoferraio le tracce si diradano, facendosi via via sempre più minute, ad eccezione della residenza di S. Martino, se la si considera un tutt’uno con l’imponente galleria di gusto neoclassico che dalla metà dell’Ottocento ne costituisce il piedistallo, immaginato da Anatolio Demidoff, principe megalomane, marito di Matilde Bonaparte, e riempita di rari cimeli, poi colpevolmente dispersi da un altro Demidoff, di professione scialacquatore. Ma la casa che comprò Napoleone, innamorato della sua verde cornice di colli, era di una decorosa semplicità tutta campagnola, arrivata, peraltro, fino a noi. Salvo alcuni interni, perché anche sotto questo cielo ci furono demolizioni e ristrutturazioni, seguite ancora con foga, più che con partecipazione, dal committente, impegnato per giornate intere in mezzo alle maestranze a dire e a fare. Tant’è che qui, se non ghignò il Vincent, lo fecero i grognards, parlando di “Chateau de Saint-Martin Saint-Cloud”. Di un castello, magari minuscolo, la residenza ebbe una sala, affrescata con scene evocative della campagna d’Egitto e ingentilita da un invaso poligonale nel pavimento, da cui zampillava un filo d’acqua. Sul soffitto il pittore dipinse un nastro intrecciato a “nodo d’amore” e tirato da due colombe a ricordare la lontananza che, piuttosto che indebolire, rafforzava il legame tra Napoleone e Maria Luisa: un granchio clamoroso, poiché la colomba austriaca non aveva alcuna intenzione di volare fino all’Elba. Fu certo azzeccato, però, un altro lavoro di pennello, fatto su misura per Paolina, un bel nudo femminile corredato dal commento “Qui odit veritatem, odit lucem”: squisita galanteria, in una festa di graticci e racemi, su una vasca da bagno.
La più discreta, forse, tra le tracce, e la più romantica, si trova sui monti di Marciana, dolomiti quasi vere, che affacciano, a Ponente, sulla Corsica, ora con grandi dorsi spogli di granito ora con castagneti secolari. C’è una chiesa, là in alto, dedicata alla Madonna, che fronteggia un secondo fabbricato, rustico, umile, un romitorio: un miracolo d’ombra e di silenzio. Napoleone ci passò un frammento della sua unica estate elbana: con un seguito ridottissimo e praticamente senza scorta. I suoi generali, che temevano un agguato, in quelle forre, avevano eccepito. Ma lui si era imposto, dicendo che un intero battaglione non avrebbe potuto salvarlo da un fucile dietro una frasca. E aveva dato di frusta al cavallo. Ma il fatto era che sarebbe andato volentieri da solo: lo si capì quando al santuario arrivò una donna. ll popolo, che sognava la favola rosa del ricongiungimento della coppia imperiale, l’additò come Maria Luisa. Invece era Maria Walewska, la bella contessa polacca da cui Napoleone era stato affascinato nel 1807 nella sua marcia vittoriosa su Varsavia. L’idillio non durò più di quarantott’ore. Erano i primissimi giorni di settembre. Ancora oggi c’è chi si scala oltre seicento metri di granito, scegliendo quei giorni. E fa una cosa ragionevole, oltre che poetica, perché i luoghi parlano con la luce, con il vento, con i freddi e con i caldi, che ci ritornano ciclicamente, non con le targhe e le statue. Ed è con quelle cose intangibili che entrano nell’anima. Diverso è il discorso per gli oggetti, che conservano all’infinito il tocco o lo sguardo di chi li ha posseduti. Napoleone ricevette Maria Walewska nella sua tenda da campagna che lo aveva seguito in tutte le sue imprese a capo della Grande Armée e che spesso si portava dietro anche all’Elba. Stettero lì, senza uscirne mai. S’intende che quel padiglione di cotone e lino a strisce bianche e blu, bordato di lana rossa, visibile ora nella galleria di S. Martino, costituisce una delle tracce capaci delle suggestioni più forti. Né esse richiamano solo i “percossi valli”, il “lampo de’ manipoli” e l’“onda dei cavalli”.
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