Rileggendo il bel libro “Elba d’Autore”, a cura di Leonida Foresi e Alessandro Canestrelli, mi sono imbattuta nell’articolo Le furie di Namaziano apparso su Sette giorni nel settembre del 1942 e scritto da Concetto Marchesi (1878-1957), grande intellettuale, insigne latinista e membro della Costituente, che era un affezionato frequentatore del Cavo, dove trascorreva, insieme al suocero e maestro Remigio Sabbadini, filologo e professore di letteratura latina, lunghi periodi di riposo e di riflessione.
Sono pagine davvero gustose, dove l’autore esordisce narrando un episodio della tarda antichità, che ha per protagonista Rutilio Namaziano, alto funzionario di corte.
Il nostro Rutilio, dunque, nell’autunno del 416, abbandona Roma per portare conforto alle sue contrade della Gallia devastata dai Visigoti.
Viaggia via mare perché la via terrestre, l’Aurelia, dalla capitale a Luna [Lunigiana] è stata colpita da frane e inondazioni. Dopo tre giorni, oltrepassata l’Isola del Giglio e la foce del fiume Ombrone, approda su una spiaggia deserta. Ripreso il mare all’alba e guadagnato il largo, grazie allo sforzo della ciurma sui remi, avvista la nostra isola e le dedica un appassionato omaggio: “Ecco apparire l’Elba famosa per le sue miniere, che produce più ferro che non abbia la gleba del Norico, più di quello che Bourges fonde nelle sue vaste fornaci, più di quello che in massa fluisce dalle zolle di Sardegna. Più benigna alle genti la terra creatrice del ferro che non le ghiaie d’oro del Tago. Oro mortale buono a creare il peccato, cieco amore dell’oro che porta a ogni delitto! Col ferro si coltiva la squallida campagna, col ferro si aprì la strada dell’esistenza, col ferro le antiche generazioni sostennero gli assalti delle bestie feroci.”
A mezzogiorno il nostro viaggiatore arriva a Faleria, dodici miglia a sud di Populonia ed ha modo di assistere ad una festa paesana in onore di Osiride, divinità egizia della fertilità, il cui culto, in territorio etrusco romano, si era fuso con quello di Bacco. Si trattiene dunque in una locanda per qualche giorno; ma al momento della partenza, ahimè, il conto risulta molto salato. Da qui le furie e le maledizioni di Namaziano, poco incline, ci sembra, alla prodigalità.
Concetto Marchesi, a questo punto, congedandosi dal funzionario romano, ci informa che di Faleria non c’è più traccia sulla costa maremmana ma che invece “qualche misero avanzo dell’antichità, non ancora interamente scomparso, rimane sulla costa dell’Elba, proprio di fronte al luogo suddetto, tra la Punta delle Paffe e la Punta della Regina dov’era un tempo una stazione militare romana con il palazzotto del governatore e ville di signori sparse qua e là: e dove sorgeva pure una chiesa, la più antica chiesa cristiana dell’isola, nella valle di San Bennato. Così pronunciano gli elbani; nelle carte si legge San Miniato: ma il nome vero del santo è quello di Menna o Mennate, e fa di questo luogo uno dei più remoti asili del cristianesimo. E’ una valle silenziosa e deserta. Rare voci d’invisibili passanti giungono ogni tanto da sentieri nascosti e si spengono. Al fianco sinistro il monte Gessèmi porta ancora nel nome il ricordo della Passione nella raccolta serenità di questa valle soleggiata che dovette fin da tempo antichissimo attrarre la gente ad abitarla”.
Marchesi ci informa quindi delle comunità monastiche cristiane diffuse nell’Arcipelago Toscano e della principale e più numerosa, quella di Capraia.
Racconta poi di San Mamiliano, vescovo di Palermo, catturato da Genserico, che, fuggito con parte del suo clero, ripara a Montecristo, fondandovi l’eremo e l’oratorio;
rammenta anche la vicenda dell’africano Cerbone, vescovo di Populonia, scacciato dal duca longobardo Gunmarit, che trova rifugio all’Elba e vi muore; ma il suo corpo –tale è la testimonianza di Gregorio Magno- è prodigiosamente trasportato a Populonia, dove la nave giunge asciutta, malgrado lo scatenarsi di un furioso temporale.
Ma prima ancora di San Cerbone, sulla costa elbana più vicina al continente, appunto quella che si chiama in suo onore valle di San Bennato, aveva messo radici il culto di San Menna, martire egiziano morto nel 296, culto che, tramite i bizantini, era giunto in Occidente. E proprio “all’imbocco della valle presso il mare sorgeva un oratorio in onore del santo che fino al secolo decimoterzo conservava il nome originario. Ora, al suo posto è una piccola vigna con un pozzo e un lavatoio, e dappresso una fabbrica di pesci salati che, dato lo stato di guerra [siamo nel 1942!] si può sentire solo col fiuto”.
Ebbene, di questa che lo studioso considera “la più antica chiesa cristiana dell’isola” e che doveva avere una fisionomia simile a quella delle consorelle di Santo Stefano alle Trane, San Giovanni, San Michele, San Lorenzo, San Bartolommeo, sparse per tutta l’isola, non resta memoria né l’indicazione precisa di dove sorgesse. Insomma tra tutte è stata la più sfortunata e dimenticata.
L’articolo continua con la descrizione accurata del luogo geografico in cui Marchesi trascorre le sue vacanze: “La zona che va da Capocastello alla valle di San Bennato cinquant’anni addietro era una campagna con sei o sette case; ma per l’aumentato sfruttamento delle vicine miniere oggi essa conta cinque abitati discosti tra loro, di cui il Cavo è la parte centrale e capitale. Insieme con quello della Regia Finanza c’è l’ufficio postale e telegrafico. Manca il telefono: ma gli abitanti sono in continua e gratuita comunicazione per via d’aria: sì che tutta la conca cavese echeggia sonora agli appelli che da un poggio all’altro insistono con incrollabile fermezza sino a che il chiamato non risponda”.
Segue il ricordo della costruzione del piccolo cimitero, appena quattordici anni prima, che avrebbe permesso una sepoltura in paese piuttosto che a Rio Marina, a sette chilometri di distanza, con il suo sfortunato inauguratore, un cavatore di Cerboli, ucciso da un infortunio sul lavoro e l’omaggio a due persone care all’autore: “Colà dormono l’ultimo sonno i due ristoratori del cavo: Mattea, l’amica di pezzenti e di ministri, che nella sua baracca sulla ghiaia, tra i ciuffi delle tamerici, offriva l’unico asilo a quanti giungessero bisognosi di cibo e di riposo e Gigi Pierolli, ahimè, l’amico mio Gigi, una volta pescatore dei più esperti e fortunati, e poi creatore di una gloriosa osteria con pergolato, dinanzi all’ampio canale aperto a tutti i venti e a tutte le luci, alla cui bellezza nulla toglieva l’odore inebriante dei dentici arrosto e dei cacciucchi piccanti di zenzero”.
Infine l’articolo si conclude con una vivacissima descrizione della spiaggia e delle sue ospiti, che ci rendono l’immagine molto umana di uno studioso sensibile, oltre che alla buona cucina, anche al fascino del sesso femminile:
“La spiaggia larga, bella di voluttuose insenature, offre lo spettacolo consueto di tutte le spiagge: corpi femminili che si protendono torpidi agli abbrunamenti del sole; madri e comari loquaci che siedono vestite sotto gli ombrelloni a conservare lo stantio pallore delle carni invernali; giovani donne che si tuffano e riappariscono nella snellezza delle membra stillanti; altre di annosa riservatezza che incedono scalze verso l’acqua rialzando appena la gonna di tela a quadretti che nessun disperato libertino vorrebbe sollevata più su. E quando il sole avvampa sull’arena si vedono le ragazze isolane beatamente sdraiate sulla riva a farsi lambire dal mare: fresche immagini di giovinezza che s’incanta e sorride ai propri sogni nella gran luce dell’estate”.
M.Gisella Catuogno
(Italia Nostra – Sez. Isola d’Elba e Giglio)
Tratto da Elbareport